1 - Andrè Louf, Sotto la guida dello Spirito, ed. Qiqaion

2 - Andrè Louf, Generati dallo Spirito, ed. Qiqaion

3 - T. Spidlik, Manuale fondamentale di spiritualità, ed. Piemme

4 - Piccolo dizionario dell'Ebraismo, ed. Gribaudi

5 - P. Beauchamp, Testamento Biblico, ed. Qiqaion

6 - P. Beauchamp, Cinquanta ritratti biblici, ed. Cittadella editrice

7 -P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, ed. Cittadella editrice

8 - Carlo M. Martini, Mettere ordine nella propria vita, ed. Piemme

9 - P. Beauchamp, All'inizio Dio parla, ed. ADP

10 - P. Bovati, Il libro del Deuteronomio, ed. Città nuova

11 - Luciano Manicardi, Memoria del limite, ed. Vita e Pensiero

 

Libri consigliati per i viaggi in Terra Santa:

1 - F. Cardini, Gerusalemme. Una Storia. ed. Il Mulino

2 - B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista. ed. BUR

3 - M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1919 al 1991. ed. Laterza

4 - M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1991 ad oggi. ed. Laterza

5 - U. Tramballi, L'Ulivo e le pietre, ed. Net

6 - U. Tramballi, Il sogno incompiuto. Uomini e storie di Israele, ed. Net

7 - D. Grossman, Con gli occhi del nemico, ed. Mondadori

8 - Card. Martini, Verso Gerusalemme, ed. Feltrinelli

9 - La Battaglia per Gerusalemme, ed. Limes

10 - F. Rossi De Gasperis, Cominciando da Gerusalemme

P. Spidlik

“L’aldilà”

 

La vita eterna. Si dice che S.Teresa sempre piangeva quando si cantava, e un professore di Teologia diceva: “Sì, sì, piangere è una bella cosa ma spiegare cosa significa, questo è il guaio”. Perché sono due termini: “Vita” e “eterna”. Che cosa è la vita? E che cosa è “eterna”? Non è tanto facile a dire. E poi si parla dell’”escatologismo orientale”. Nel tempo del Concilio c’era il vescovo ortodosso di Parigi, Cassiano, e gli hanno mostrato le università pontificie di Roma, il Vaticano, e lui diceva: “Voi aspettate ancora la venuta di Gesù Cristo o volete fare tutto qua?”. E difatti questa obiezione sulla mancanza dell’Escatologismo, ha spinto i padri del Concilio ad aggiungere nella messa: “Nell’attesa della beata speranza della venuta di nostro Signore Gesù Cristo”. Ma vale anche l’obiezione contraria. Solov’ev dice: “A causa del suo escatologismo la Chiesa orientale ha dimenticato di occuparsi delle cose necessarie, dei poveri e di tutte queste cose”.

Dunque cos’è quest'escatologismo? Questo si può capire in due sensi: i predicatori al popolo dicono: “Verrà il giudizio finale, in questo giorno ecc..”, tutto verrà, verrà il giudizio finale.

Invece i monaci orientali avevano un altro escatologismo: vale a dire la vita eterna comincia già adesso. Noi diciamo quello che deve venire, “qui venturus est”, e in greco è “erchomenos” che si può tradurre “che sta lentamente venendo”. E volevano fare già in questa vita fare la contemplazione perché quella si farà nel cielo.

Dunque la vita eterna si può prendere come la vita dopo la morte e si può prendere la vita eterna che viviamo già adesso. Perché gli orientali distinguono la cosidetta “tricotomia”, l’uomo cristiano è composto dal corpo, dall’anima e dallo Spirito Santo. Corpo e anima appartengono già a questa vita e lo Spirito Santo appartiene già alla vita eterna. Dunaque abbiamo già la vita eterna da adesso. Ma come spiegare tutto questo?

Facciamo una riflessione storica, filosofico-teologica sull’eternità, come la gente se la immaginava. La prima concezione primitiva è quella circolare. Tutto gira eterno è solo il tempo. Dio Kronos che genera gli dei e gli uomini, ma tutto gira e rigira, non c’è niente di eterno se non il tempo stesso. Nelle catacombe etrusche si trova a volte il serpente che mangia la propria coda. Tutto gira e niente resta. Eraclito: “Tutto passa e non rimane neinte”. Solo il tempo. Questa è la prima concezione ciclica.

Vediamo la concezione popolare. La concezione popolare è lineare. Il tempo che continua, continua, continua. Fino all’eternità. Vivo in certo tempo, poi morirò e comincia l’eternità. Quanti anni! Cosa farò in tutto questo tempo d’eternità? Mi annoierò! L’eternità come lungo tempo non regge!

Veniamo alla terza concezione, la concezione greca. I greci si sono resi conto che sono due cose diverse il tempo e l’eternità. E nella mitoligia all’inizio era il re Kronos, re-tempo che mangiava i propri figli. Ma Zeus si è ribellato, lo ha ucciso e ha creato l’Olimpo. Dunque il tempo deve essere cancellato e comincerà l’eternità. E che cosa è l’eternità? Aristotele dice : “Tempo è movimento”, “è numero del movimento”. Tante volte gira la terra, tanti giorni abbiamo. Se domani la terra girasse più velocemente non ci accorgeremmo di niente perché tutto si muove. L’eternità significa che smette il movimento e tutto rimane. C’è una bella icona “Salita nel paradiso”, scala del paradiso sul monte Sinai dove i monaci salgono la scala. All’inizio sono più movimentati, più salgono e più sono tranquilli e all’ultimo gradino sono immobili. Il tempo si è fermato, comincia l’eternità. Certo comincia l’eternità, ma è ancora la vita? Quando tutto si ferma è ancora vita? Non va. È l’eternità ma non è la vita. E allora la risposta?

Dall’antico tempo gli autori orientali si rendevano conto che questo problema non si può spiegare nei termini umani. Tempo e eternità sono cose che non reggono. Allora cosa dice la Bibbia? Dio ha creato all’inizio e sarà la fine. Sull’icone c’è il rotolo del mondo, all’inizio si svolge e alla fine gli angeli lo riavvolgono di nuovo. Sarà l’inizio e la fine. Dio crea all’inizio gli uomini e le cose e poi dà ad ognuno il suo tempo. Ognuno riceve il tempo necessario per quello che deve fare. Per es. immaginate che mi chiamano alla radio e dicono: hai un quarto d’ora, parla di cosa vuoi ma hai un quarto d’ora. Questa sarebbe la prima concezione ciclica dove il tempo è eterno. Invece uno mi dice: tu devi andare a parlare alla radio dell’aldilà. Quanto tempo hai bisogno per spiegarlo? E dico: per spiegarlo bene avrò bisogno minimo di due ore. Dunque riceverai due ore. E così nella Bibbia tutti i tempi sono nella mano di Dio. E Dio regna per i secoli dei secoli. Dunque tempo ed eternità sono un po’ insieme ma nella mano di Dio. E come si uniscono? Viene l’ultima soluzione: Cristologica.

Cristo che è eterno si è incarnato, è nato dalla vergine Maria ed è morto sotto Ponzio Pilato. È entrato nel tempo. Dunque in Gesù Cristo l’eternità e il tempo si sono uniti. Come divinità me umanità. Lui è eterno e lui è storico. Domanda: la nascità di Gesù Cristo è passata, non esiste più? E la  morte è passata, non esiste più?noi rispondiamo che la nascita, la morte, tutta la vita di Gesù Cristo è eterna. E dove lo vediamo? Nella liturgia. La liturgia è anamnesis. Ricordiamo la tua nascita, la tua morte, la resurrezione, aspettiamo la tua venuta. Nel passato ci si chiedeva al catechismo, che differenza passa tra la cena dei protestanti e la messa latina? Si diceva: i protestanti hanno soltanto un ricordo, invece da noi c’è la realtà. È una buona risposta? In un certo senso la nostra messa non è un ricordo? Sì è un ricordo! Solo è un ricordo sacramentale. Cioè per mezzo delle parole del sacerdote ricorda Dio stesso. E ciò che Dio ricorda è presente. Dunque l’eternità è presente per mezzo di un ricordo eucaristico. E così la vita di Gesù Cristo è sempre presente, e in un modo simile dobbiamo pensare anche la nostra eternità. Non è andare avanti ma è piuttosto andare indietro, tutto deve tornare.

Io sempre pensavo dove sono gli argomenti per l’immortalità dell’anima. Ci sono gli argomenti filosofici: il corpo è materiale, l’anima è immateriale, quindi immateriale non può essere distrutta, dunque l’anima è eterna. È valido ma è filosofico non teologico. L’argomento teologico l’ho letto in una vita di una fondatrice di qualche congragazione, è difficile ricordare i nomi. Ma la cosa che ricordo è che curava una malata di cancro al volto e nessuno voleva avvicinarsi. E disse a questa malata “Pregate”, e questa “Se Dio esistesse io non sarei qui. Non esiste nessun Dio”. Va bene, la curava e dopo qualche mese quella malata disse “Dio esiste”, e la madre le chiese da dove le era venuta questa nuova convinzione. “Guardi”, le rispose, “quel bene che mi ha fatto non può essere perduto”. E questo è l’argomento teologico. Ogni opera fatta nella grazia di Dio non può essere perduta, deve ritornare in una eterna liturgia celeste. Certo che è difficile spiegarlo nei termini umani, però c’è una bella illustrazione. Conoscete Tarkowskj e il suo film “Nostalghija”. È profondamente teologico. Un profugo dal comunismo viene in Italia. Dall’inferno viene in paradiso. E questa Italia con tutta la sua arte, lui comincia a vedere le varie città, come un uomo che viene dalla terra in cielo e vede tutte le meraviglie. E un giorno dice: “come sono stanco di vedere sempre le belle cose”. C’è qui quella prima concezione di vedere sempre avanti, avanti. Alla fine stanca. E allora c’è un pazzo che vuole suicidarsi, cioè finire questo tempo per sempre, ma anche questa non è la soluzione. Poi incontra un altro pazzo, questo pazzo nella letteratura russa è sempre simbolo di una verità che supera la logica. E quello gli dà una piccola candela e questa è simbolo di fede e con questa piccola candela ripassa la sua vita e poi muore nella chiesa vicino Siena, e tutto ritorna, la sua mamma ecc., e cantano nella liturgia bizantina: eterna memoria. Tutto ritorna. Allora eternità in questo concetto non dico che è comprensibile ma è una bella cosa, che niente di bello e buono può essere perduto. Deve avere un valore assoluto e la vita deve avere un valore assoluto. Inutile immaginare dove vivremo, dove saremo, tutte quelle obiezioni inutili. Questo non ha nessun significato. E sapete che oggi molti parlano che una vita non basta e bisogna avere la reincarnazione, ecc.. quando si va avanti ci si potrebbe reincarnare cento volte, ma quando si va indietro questo non ha nessun significato. La mia vita deve essere salvata nella sua piena bellezza. Dunque qualche idea dell’eternità ci viene data dalla teologica orientale ma adesso il passaggio come si fa, dal tempo all’eternità?

Dunque di nuovo distinguiamo la concezione primitiva: crede nella morte eterna, come nelle mitologie greche, si va nella regione delle ombre e le ombre rimangono per tutto il tempo ma non è la vita. Diceva un re che è meglio essere pastori sulla terra nel regno del sole che re negli inferi. È lo sheol, la terra dove si vive come ombre, come spiriti immateriali che possono apparire qualche momento sulla terra ma vivono nel regno delle ombre. Non è una bella concezione sulla morte.

Viene di nuovo la concezione greca: si cancella semplicemente questa vita e si passa in un'altra vita, e questa altra vita è bellissima, ma bisogna distruggere questa vita qua per passare all’altra. Allora questa misera vita qua, avrò poi la visione beatifica dove ci saranno le idee. Platone diceva che la vita è lo studio della morte, liberarsi da questo fardello del corpo e andare nella vita eterna. È una bella cosa, ma nessun buon contadino vuol facilmente lasciare questa valle di lacrime, dice “qui, grazie a Dio ci piango abbastanza bene”. Belle prediche!

La concezione biblica sulla morte non è per niente platonica dove la morte sarebbe liberazione. Secondo l’AT, la morte è effetto del peccato, le chiavi della morte sono nella mano del diavolo e distrugge la vita. Dio ha creato la vita e il diavolo è assassino dall’eternità e domina per mezzo della morte. Dunque la morte non è niente di bello. C’è qualche speranza? L’AT dice sì! Le anime dei giusti sono nella mano di Dio ma non si sa come. Conoscete l’icona dell’assunzione della Vergine dove Gesù tiene l’anima della Madonna sulla mano, come essa teneva il corpo, Gesù tiene l’anima, perché le anime dei giusti sono nella mano di Dio. Ma l’AT non ha risposta.

Viene il NT, ciò che Cristo ha assunto, ha liberato, e siccome ha assunto la morte, la morte diventa liberatrice. Dice Solov’ev: dire che la morte è qualcosa di buono, è un non-sense e contro ogni rivelazione, perché la morte non è per niente buona, ma siccome è assunta da Cristo allora diventa bene. E l’immagine della resurrezione nell’antica chiesa non è questo Cristo che sale, ma che scende negli inferi. Discese agli inferi, cioè nel regno della morte, e siccome ha assunto la morte, la morte diventa salvatrice. Allora una sola morte diventa liberatrice: la morte con Cristo. Ora viene al domanda: quale morte è insieme con Cristo? Allora qui c’è un interessante passaggio del pensiero. All’inizio il martirio. Dunque martiri, cioè “nessuno ha un amore più grande di quello che dà la vita per un altro”. Chi è martire va subito nel paradiso, da cui il culto dei martiri. Sono risorti, sono nel paradiso. Ma se non tutti muoiono come martiri? Soprattutto nella spiritualità slava, c’era “morto per qualsiasi motivo giusot”. I primi santi canonizzati russi non sono morti per la fede ma per la pietà familiare. Morire per una buona cosa è sempre un martirio. Ogni morte ingiusta rassomiglia a Cristo, e alla fine i teologi russi recenti dicono che ogni morte ha qualcosa in comune, immagine della morte di Cristo. È un battesimo, e il battesimo, quando uno non fa obiezioni, santifica. Loro parlano del sacramento della morte. Il sacramento della morte viene da Cristo, rassomoglianza con Cristo, nel battesimo siamo morti e questa seconda morte è soltanto un effetto. Evdokimov dice che siamo già morti e risorti nel battesimo, soltanto fenomenologicamente aspettiamo.  

SENTINELLA, QUANTO RESTA DELLA NOTTE  Giuseppe Dossetti 

 La sentinella interpellata

Lazzati è sempre stato - ma in particolare negli ultimi anni della sua vita - un vigilante, una scolta, una sentinella: che anche nel buio della notte, quando sulla sua anima appassionata di grande amore per la comunità credente poteva calare l’angoscia, ne scrutava con speranza indefettibile la navigazione nel mare buio e livido della società italiana1. Perciò mi pare che per lui e per la sua devota e ansiosa scrutazione possano valere le parole di un breve, e un po’ enigmatico, oracolo del libro di Isaia: inserito tra le profezie sulle Nazioni pagane (in questo caso, come formalmente precisa la versione dei LXX, sull’Idumea oppressa dagli Assiri).

Mi gridano da Seir:

Sentinella, quanto resta della notte?

Sentinella, quanto resta della notte?

La sentinella risponde:

Viene il mattino, e poi anche la notte

se volete domandare, domandate,

convertitevi, venite! (Isaia 21, 11-12)

 Nessun rimpianto per il giorno precedente

Una prima riflessione si può fare su questo testo. Non c’è nessun cenno al giorno precedente: ai suoi pesi, alle sue prove, ai suoi tormenti e alle sue speranze (se ce ne potevano essere). Chi interpella la sentinella, e la sentinella stessa, non si ripiega a considerare - tantomeno a rimpiangere - il giorno prima.

Certo Lazzati non si faceva nessuna illusione, nei suoi ultimi anni, su ciò che si stava preparando per la cristianità italiana. Chi ha potuto avvicinarlo allora, avvertiva che la sua coscienza esprimeva un giudizio duro, lucido, su ciò che stava maturando per il nostro Paese, appunto quello a cui stiamo assistendo ora dopo le ultime elezioni: non tanto lo sbandamento elettorale dei cattolici, ma le sue cause profonde, oltre gli scandali finanziari e oltre le collusioni tra mafia e potere politico, soprattutto l’incapacità di "pensare politicamente", la mancanza di grandi punti di riferimento e l’esaurimento intrinseco di tutta una cultura politica e di un’etica conseguente.

Perciò Lazzati, se posto di fronte agli ultimissimi accadimenti, non sarebbe stupito né si attarderebbe in vani rammarichi per l’improvvisa caduta dell’espressione politica del cattolicesimo italiano. Io sono sicuro che egli da anni la vedeva per scontata e quasi fatale: pur essendo ben convinto - e con quale vigore! - della validità in sé del patrimonio ereditato dal passato meno recente (anteriore alla prima guerra mondiale e da quello prefascista) e dal passato più recente (soprattutto dei primi lustri del secondo dopoguerra). Tale eredità poteva annoverare una elaborazione culturale, forse modesta, ma vivace; un’opera di formazione vasta e costante, di quadri e di masse; sforzi organizzativi appassionati e perseveranti; e soprattutto tanta fede e tanta speranza e tanti sacrifici di persone umili e realmente disinteressate; e infine, alcuni momenti forti di mediazione civile e politica riconosciuta da molti come valida.

A questa eredità si ricollegava Lazzati e l’ha anche gestita ed arricchita di suo. Ma non credo che oggi, dopo tanta dissipazione che ne è stata fatta per leggerezza e per disonestà diffusa, egli si attarderebbe a insistervi o per lo meno non direbbe che il problema si riduce principalmente a rivendicare con energia il patrimonio passato e ad "avere l’orgoglio delle proprie ragioni".

Ragioni appunto del passato: cioè di ieri, o meglio di ieri l’altro. Non abbiamo ancora abbastanza considerato - e direi proprio che non ce ne vogliamo persuadere - quant’acqua sia passata dal 1989: in cinque anni è come se ne fosse passata tanta da sommergere non un’isola, ma un intero continente (l’Europa: e l’Europa soltanto?).

Che non ne siamo ancora persuasi, non siamo solo noi cattolici (o lo siamo solo nelle affermazioni generiche, e poi non ne deduciamo quasi nulla quando si tratta di operare) ma lo sono anche i laici, e in particolare le sinistre nostrane: e persino queste nuove destre, che hanno vinto le elezioni sulla scommessa del nuovo, ma che per ora si mostrano ancora attaccate a metodi vecchi, a soluzioni archeologiche, e persino quando vorrebbero innovare (come fa la Lega) fanno proposte capaci di dare voce alla protesta degli interessi di oggi, e non capaci di interpretare il vero movimento della storia, italiana ed europea.

 

 

 La notte va riconosciuta per notte

Dunque, a parer mio, Lazzati oggi non sarebbe un saggio laudator temporis acti, cioè non si attarderebbe a rimpiangere il passato di ieri o di ieri l’altro, o a riaccreditarlo di fronte agli immemori, ma si immergerebbe consapevolmente nella notte: direbbe con semplicità e forza che la notte è notte, ma sempre con l’anima della sentinella che (secondo un altro testo celebre della Scrittura, il De profundis) è tutta verso l’aurora:

L’anima mia è verso il Signore più che la sentinella verso l’aurora. (Salmo 129/130)

Pur non guardando al passato, e senza stabilire alcun confronto col tempo di prima, e pur guardando in avanti verso il mattino, la sentinella è ben consapevole che la notte è notte.

Prescindiamo da un disordine più generale, che investe tutta l’Europa (e che ha riflessi speculari sui suoi prolungamenti asiatici e africani). Guardiamo per ora solo all’Italia. Siamo di fronte a evidenti sintomi di decadenza globale.

Anzitutto sul piano demografico: abbiamo il tasso di natalità più basso, sicché se continuassimo sempre in questo modo, si profilerebbe tra un secolo e mezzo l’estinzione del nostro popolo. E comunque nella nostra società, a un crescente numero di anziani e di vecchi presto non sarà più un valido compenso il numero di giovani e di persone mature. Già oggi i minori di diciotto anni sono solo dieci milioni, su cinquanta, cioè un quinto del totale.

In secondo luogo, sganciato sempre più sistematicamente il matrimonio dal necessario e imprescindibile rapporto con la fecondità, si hanno due conseguenze:

- la fecondità cercata, quando è cercata, per conto suo, cioè non come realizzazione umana della pienezza della personalità, ma come questione di ingegneria genetica, che finisce quasi sempre con l’essere avulsa da qualunque spiritualità;

- e dall’altra parte l’atto sessuale tende sempre di più a dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più perverse, come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave perdita delle culture.

- In terzo luogo questa ossessione del piacere sessuale, come porta a una continua ed eccessiva stimolazione dell’istinto naturale, così lo infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali (e sono segnalate alte percentuali di questo decadimento). E ancora porta (con altri fattori concomitanti quale l’eccesso furibondo di immagini mediatiche) porta, dico, all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi dell’elementare capacità critica.

- In quarto luogo la scuola, specialmente la scuola superiore - in gravissimo ritardo nel rinnovamento dei suoi ordini, delle sue strutture e dei suoi programmi - è sempre più inadeguata a compensare questo vuoto desolante: e in certi ambiti locali è fatalisticamente rassegnata a non funzionare più per nulla.

- Infine, al vuoto ideale e conseguentemente etico, si tenta dai più di compensare con la ricerca spasmodica di ricchezza: per molti al di là di ogni effettivo bisogno vitale, elevata a scopo a se stessa. Si verifica così per parecchi ciò che la prima epistola a Timoteo (6,9) chiama il laccio di una bramosia insensata e funesta.

Così, alla inappetenza diffusa dei valori - che realmente possono liberare e pienificare l’uomo - corrispondono appetiti crescenti di cose - che sempre più lo materializzano e lo cosificano e lo rendono schiavo.

Questa è la notte, la notte delle persone: la notte davvero impotente, uscita dai recessi dell’inferno impotente, nella quale la persona è custodita rinchiusa in un carcere senza serrami (Sap 17, 13.15).

  

La notte delle comunità

In questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere (il Mit-sein heideggeriano: pur esso, però, insufficiente, come cercherà di insistere Levinas): e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole (di qui la fatale progressione localistica) sino alla riduzione al singolo individuo. E’ appunto il singolo ciò su cui costruisce tutta la sua dottrina l’ideologo della Lega: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale2. E perciò rispetto agli altri non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio. "Noi stiamo entrando in un’età caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà". Un’età, dunque, in cui "gli ordinamenti federali sono sistemi in cui si tratta e si negozia senza soste3".

 

Al che ha già risposto Cacciari, concludendo appunto su "Micro Mega" il suo dialogo con Miglio: cioè che questo di Miglio è puro occasionalismo (invero alla sua volta teologico, a dispetto della sua grande pretesa di laicità) e che per tale via si ridurrebbe "il politico a pura contrattazione economica, per dissolvere il sistema in un coacervo di accordi e di convenzioni." E perciò Cacciari gli ripropone la domanda che aveva già formulato: "Che cosa differenzia un tale sistema da quello che regola gli accordi fra imprese industriali e commerciali?"4

C’è da chiedersi, a questo punto, se tali degenerazioni non siano insite nella decadenza del pensiero occidentale, come sostiene Levinas. A suo parere, possono essere evitate non con un semplice richiamo all’altruismo e alla solidarietà5; ma ribaltando tutta la impostazione occidentale, cioè ritornando alla impostazione ebraica originale, nella quale si dissolve proprio questa partenza dalla libertà del soggetto. I figli d’Israele sul Sinai, nel momento più solenne e fondante di tutta la loro storia, quando Mosè propose loro la Legge, hanno detto: "Faremo e udremo" (Es 24,7)6. Cioè essi scelsero un’adesione al Bene, precedente alla scelta tra bene e male. Realizzarono così un’idea di una pratica anteriore all’adesione volontaria: l’atto con il quale essi accettarono la Thorà precede la conoscenza, anzi è mezzo e via alla vera conoscenza. Questa accettazione è la nascita del senso, l’evento fondante l’instaurarsi di una responsabilità irrecusabile.

L’accoglimento della Rivelazione è una caratterizzazione dell’uomo come risposta, come coscienza della destinazione che porta all’Altro. Ben avanti ogni sermone edificante, ogni moralismo, ogni paternalismo: c’è una relazione e una responsabilità che mi costituisce prima ancora che io possa chiedermi come devo comportarmi e cosa devo fare.

Comunque si può affermare di Lazzati che, anche se non ha svolto queste premesse teoriche, e se ha semplicemente tutto ricondotto - anche l’etica - al mistero di Cristo, suprema fondazione di ogni chiamata dell’uomo, ha però sempre visto il mistero di Cristo indissolubilmente congiunto a una eticità rigorosa e sistematica. Egli ne ha analizzato e approfondito e, quel che più conta, ne ha testimoniato con i fatti, tutte le applicazioni in ogni ambito dell’esistenza personale e comunitaria. Da giovane laico si è impegnato nell’Azione Cattolica e nella cultura. Così, fatto prigioniero, dal primo giorno all’ultimo dei due anni di internamento nei Lager tedeschi, ha incessantemente cercato di infondere speranze e costanza e fedeltà nei compagni di prigionia. Rimpatriato, ha fatto tacere ogni preferenza personale, ha semplicemente riconosciuto il dovere del momento, e si è impegnato in politica ad tempus e sempre con limpido e nobile rigore etico. E dopo, con la stessa semplicità, è ritornato ai suoi studi e al suo insegnamento, e soprattutto al suo magistero continuo, col quale inculcava ai più giovani la passione etica nell’esercizio delle singole professioni. E finalmente ha ancora testimoniato la sua superiorità etica nella sua sofferta indipendenza e imparzialità di Rettore all’Università Cattolica. E poi nella sua lunga malattia fino alla morte.

 

 L’illusione dei rimedi facili e delle scorciatoie per uscire dalla notte

Ritornando ora all’oracolo di Isaia, e preso atto che esso parla di notte, e di notte fonda, dobbiamo ancora soggiungere che esso non lascia grandi speranze ai suoi interpellanti: ma con voluta ambiguità, annunzia sì il mattino, ma anche subito il ritorno della notte. L’oracolo del profeta non vuole alimentare illusioni di immediato cambiamento, e anzi invita a insistere, a ridomandare, a chiedere ancora alla sentinella, senza però lasciare intravedere prossimi rimedi.

Potremo anche per questo aspetto trovare qualche indicazione valida per noi ora, e sempre esempi validi in Lazzati.

Certamente, anzitutto, l’indicazione e l’esempio di una perseveranza durevole che sa, anche nelle circostanze estreme, sfuggire alla tentazione di soluzioni facili e di anticipazioni tattiche.

Oserei aggiungere un consiglio che, a mio avviso, emerge dalla nuova congiuntura che si sta creando nel nostro Paese, proprio in questi giorni dopo la formazione del nuovo governo.

Conviene ripensare alle cause profonde della notte, quali già Lazzati le indicava, agli inizi degli anni ’80, come realtà intrinseche alla nostra cristianità italiana. Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo, per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché a una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo ed autentico e quindi ad un’alta eticità privata e pubblica8.

Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo

 

in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare e la politica scolastica).

Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte ad una scelta che non può essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo ma di un aut-aut istituzionale.

Non si può in nessun modo indulgere alla formula giornalistica della Seconda Repubblica, impropria, anzi erronea imitazione del modo francese di numerare la successione delle forme costituzionali avvenuta nel Paese vicino.

Non si vuol dire, con questo, che nel caso nostro non ci siano cose da cambiare, in corrispondenza delle grosse modificazioni intervenute nella nostra società negli ultimi decenni. E’ molto avvertita, per esempio, una diffusa e pervasiva alterazione patologica dei rapporti tra privati, partiti e pubblica amministrazione; come pure la pletoricità e macchinosità di un sistema amministrativo che non si adatta più alle dinamiche di una società moderna; e ancor più la degenerazione privilegiaria e clientelare dello stato sociale (tradito); la necessità di una lotta sincera e non simulata alla criminalità organizzata; e infine l’emergenza e la necessità di adeguata valorizzazione di una nuova classe operosa di piccoli e medi imprenditori.

Si può aggiungere l’esigenza di uno sveltimento della produzione legislativa, e perciò la riforma dell’attuale bicameralismo; e soprattutto un’applicazione più effettiva e più penetrante delle autonomie locali, da perseguirsi, però, al di fuori di ogni mito che tenda a stabilire distinzioni aprioristiche nel seno del popolo italiano e che perciò tenda a scomporre l’unità inviolabile della Repubblica.

Se tutto questo sarà fatto, nel rispetto della legalità e senza spirito di sopraffazione e di rapina, nell’osservanza formale e sostanziale delle modalità costituzionali, non ci può essere nessun pregiudizio negativo, anzi ci deve essere un auspicio favorevole.

Ma c’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Certo oltrepasserebbe questa soglia una disarticolazione federalista come è stata più volte prospettata dalla Lega. E ancora oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito.

Questi oltrepassamenti possono essere già più che impliciti nell’attuale governo: per il modo della sua formazione, per la sua composizione, per il suo programma e per la conflittualità latente ma non del tutto occultata con il Capo dello Stato. Perciò, più che di Seconda Repubblica si potrebbe parlare del profilarsi di una specie di triumvirato: il quale, verificandosi certe condizioni oggettive e attraverso una manipolazione mediatica dell’opinione, può evolversi in un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea (trasformazione appunto di una grande casa economico-finanziaria, in Signoria politica).

In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa, almeno fino a quando non siano date positive, evidenti e durevoli prove in contrario.

 

 Convertitevi!

La sostanza ultima dell’oracolo della sentinella è al di fuori di ogni ambiguità: Convertitevi!

La radice ebraica impiegata nel libro di Isaia significa per sé ‘ritornare’. Ma può esprimere anche, specificamente, il rivolgersi a Dio, cioè la conversione9.

Secondo la sentinella non si tratta tanto di cercare nella notte rimedi esteriori più o meno facili, ma anzitutto di un trasformarsi interiormente, di un dietrofront intimo, di un voltarsi positivo verso il Dio della salvezza.

Radice di questa conversione è anzitutto la contrizione, il pentimento.

Nel caso nostro dobbiamo anzitutto convincerci che tutti noi, cattolici italiani, abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni, e che ci sono grandi colpe (non solo errori o mere insufficienze), grandi e veri e propri peccati collettivi che non abbiamo sino ad oggi incominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta.

C’è un peccato, una colpevolezza collettiva: non di singoli, sia pure rappresentativi e numerosi, ma di tutta la nostra cristianità, cioè sia di coloro che erano attivi in politica sia dei non attivi, per risultanza di partecipazione a certi vantaggi e comunque per consenso e solidarietà passiva.

 

Ma per quanto fosse convinto ed esplicitato e realizzato nei fatti, questo pentimento non basterebbe ancora. Inquadrandolo nel pensiero di Lazzati - soprattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo - si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico.

Ma la partenza assolutamente indispensabile oggi mi sembra quella di dichiarare e perseguire lealmente - in tanto baccanale dell’esteriore - l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore.

Questo potrebbe sembrare persino ovvio e banale: ma ovvio non è, come appare chiaramente da tanti segnali nel mondo cattolico italiano, da tante affermazioni contraddittorie che si susseguono, da tante preoccupazioni ben altre che di fatto animano gruppi e personalità, vecchie e nuove, del laicato e del clero.

Mi si consenta perciò di precisare meglio che cosa è questo primato dell’interiore.

Muovo fondamentalmente da tre testi di s. Paolo.  

Rm 7, 15-24: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio, io faccio, ma quello che detesto (...). Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (...). Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento alla legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra.

2 Cor 4, 16-18: Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne.

Ef 3, 14-16: Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore.

L’uomo interiore

Dal confronto di questi tre testi possiamo ricavare:

- il significato fondamentale, preso dalla filosofia greca volgarizzata, di uomo interiore in s. Paolo;

- e a un tempo il suo slittamento verso il concetto propriamente semitico (ed evangelico, e tipicamente paolino) di uomo nuovo.

Tutt’e due sono indispensabili, a parer mio: e tutt’e due devono essere tenuti presenti e valorizzati nella ricostruzione etica che è necessaria perché la nostra conversione sia piena e matura: e perché l’eventuale operare politico dei cristiani si possa effettivamente sottrarre agli errori e alle colpe sinora commesse.

Cominciamo dall’uomo interiore nell’accezione della filosofia greca volgarizzata, ben presente nella frase riferita dell’epistola ai Romani: è l’uomo secondo ragione, secondo la mente che impegna per il meglio le sue facoltà a costruirsi pienamente secondo quelle virtù che chiamiamo cardinali (e che anche gli antichi chiamavano così): la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia.

Dobbiamo riconoscere che noi cristiani le abbiamo di fatto trascurate: tutte o quasi tutte, almeno per certe loro parti o implicanze. Abbiamo magari insistito molto sulla temperanza, e in particolare sulla castità, ma assai meno sulla fortezza: che ci possa far sostenere non dico la persecuzione violenta, ma appena il disagio sociale di una certa diversità dall’ambiente che ci circonda, oppure che ci porti ad affrontare il contrasto e la disapprovazione sociale o comunitaria, per difendere esternamente una tesi sentita in coscienza come cogente.

Ancor meno abbiamo insistito sulla giustizia in quanto obbligo di veracità verso il prossimo (e di qui la tendenza a tante dissimulazioni, considerate spesso dai non cristiani tipicamente nostre). Soprattutto non abbiamo saputo raggiungere un senso pieno della giustizia, superando una sua concezione limitata solo a certi rapporti intersoggettivi e sapendola estendere ai doveri verso le comunità più grandi in cui noi siamo inseriti. E’ a questo punto che si è potuto asserire da altri (E. Galli della Loggia), in un ripensamento della vicenda storica del liberalismo nei confronti del cattolicesimo, nei decenni trascorsi dell’ltalia unitaria, che al vuoto religioso o all’anticlericalismo del liberalismo, i cattolici non hanno offerto il compenso che potevano dare e che doveva essere loro proprio, per l’edificazione di un’etica pubblica.

 

Se questo è vero - come può apparire vero anche a prescindere dalla ricostruzione storica del Galli della Loggia, in conformità a molti e insistenti richiami Lazzatiani in materia - dobbiamo riconoscere di avere negli ultimi decenni perduto un’occasione storica unica e probabilmente irrecuperabile, e dobbiamo, pur tardivamente, cercare di riempire il vuoto e di correggere i molti errori e peccati. Dobbiamo ora porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto anche quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia (quanto ancora c’è da fare soprattutto per l’eticità tributaria, oltre le facili giustificazioni forse talvolta ovvie, ma sempre non consentite al cristiano!).

 L’uomo nuovo e la Città dell’uomo

Ma s. Paolo ci insegna anche che all’uomo interiore si oppone (combatte contro) un’altra legge o forza antitetica che è nelle radici della nostra corporeità intaccata dal peccato. E la consapevolezza di questo dovrebbe anzitutto portarci tutti all’umiltà: ad edificare i nostri sforzi individuali e collettivi sul presupposto della nostra miserabile fragilità, che fa dire all’Apostolo: sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?

Umiltà, dunque: individuale e collettiva di noi tutti cristiani. Mentre è tanto facile che, come collettività, procediamo con falsa sicurezza, con infelice parrisia, se non con arroganza, che proprio ripensando a tutti questi decenni non dovremmo avere, ma dovremmo piuttosto sentire come ragione di confusione e di vergogna.

L’uomo interiore, tuttavia, può essere salvato, anzi, come dice s. Paolo, rinnovarsi di giorno in giorno se è potentemente rafforzato dallo Spirito di Dio.

Allora l’uomo interiore può essere elevato a uomo nuovo, veramente essere in Cristo nuova creazione (2 Cor 5, 17 e Gal 6, 15); rivestito di Cristo come è realmente ogni battezzato (Gal 3, 27). Può così essere fortificato per ogni combattimento dalla panoplia di Dio (Ef 6,11); cioè rivestito della corazza della fede e dell’amore (I Tes 5,8), e rivestito, come eletto di Dio, di viscere di misericordia (Col 3, 12).

Ma appunto tutto ciò deve essere di ora in ora implorato da Dio, credendo e confidando nella sua Paternità misericordiosa: piego le ginocchia (...) perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria (...).

In ultima analisi, è solo questo che può vincere la notte. Lo squarcio operato nel buio - nel momentaneo leggero peso della nostra tribolazione - dal fulgore dell’enorme, letteralmente "eterno peso di gloria".

Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico, dell’escatologia.

Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io. (Anzi, qualcuno poteva persino vantarsi di questo, come prova di concretezza e di realismo: non accorgendosi che tutto si riduceva a rimedio empirico, ad espediente effimero).

C’è un aspetto e una conseguenza particolare di questa auspicabile sanazione della nostra vista - sanazione, dico, operata dal richiamo escatologico - che mi pare, concludendo, di dovere fra le altre particolarmente segnalare: il ricordare sempre che la Chiesa non è ancora il Regno di Dio: ne è, se mai, il germe e l’inizio11. E va aggiunto che delle sue due funzioni: l’evangelizzazione (cioè l’annunzio del Cristo morto, risorto, glorificato) e l’animazione cristiana delle realtà temporali, la seconda spesso può concernere il Regno in modo molto indiretto. Il che porta a concludere che tutte queste realtà temporali che dovrebbero essere ordinate cristianamente (compresa la politica) possono essere finemente e saggiamente relativizzate, secondo le diverse opportunità concrete: e comunque sempre vanno rispettate nella loro autonomia e perseguite da laici consapevoli e competenti che, come diceva Lazzati,

vivono gomito a gomito, per così dire, degli uomini del loro tempo e di varia estrazione culturale... attraverso il confronto e il dialogo, naturalmente senza perdita della propria identità, sempre nel rispetto della natura di tali realtà e della loro legittima autonomia, con sincero sforzo di comprendere l’altro.

E questa è la via - diurna e non notturna - verso la Città dell’uomo, nella prospettiva sempre intensamente mirata della Città celeste, della nuova Gerusalemme.

  Milano - Città dell’Uomo - 18 Maggio 1994

Il mistero

 L’assenza di mistero della nostra vita moderna è la decadenza e la nostra povertà. Una vita umana ha tanto valore per quanto rispetta il mistero. Nella venerazione del mistero, un uomo conserva qualcosa della sua infanzia. I bambini hanno occhi così aperti e vigili perché sanno di essere circondati dal mistero. Non si sono ancora perfettamente adattati a questo mondo, non sanno ancora ottenere il successo ed eludere i misteri, cosi come noi sappiamo fare. Noi distruggiamo il mistero, perché abbiamo il presentimento che qui incorreremmo in un limite del nostro essere, perché vogliamo disporre ed essere signori di tutto, e proprio questo non è possibile con il mistero. Il mistero ci crea disagio, perché noi non siamo a casa nostra in sua presenza, perché esso parla di un *essere a casa+ che è diverso da quello che intendiamo noi. Vivere senza mistero significa non saper niente del mistero della nostra stessa vita, del mistero dell uomo, del mistero del mon­do; significa non dare importanza all'altro uomo e al mondo: significa restare in superficie. Significa prendere sul serio il mondo solo quel tanto che può essere gettato al calcolo e sfruttato, non risalire indietro rispetto al mondo del calcolo e dell'utilità. Vivere senza mistero significa non vedere assolutamente i fatti decisivi della vita o addirittura negarli. Non vogliamo sapere che le radici dell'albero stanno nell’oscurità della terra, che tutto quanto vive alla luce proviene dall’oscurità e dal mistero del grembo materno, che anche tutti i nostri pensieri, tutta la nostra vita spirituale, viene dal mistero di una oscurità nascosta, così come la nostra vita e ogni vita. Non vogliamo sentire che il mistero è la radice di ogni cosa concepibile, chiara, evidente. E se lo sentiamo, vogliamo affrontare questo mistero, lo vogliamo ridurre alle nostre unità di misura e di spiegazione, lo vogliamo sezionare, e risulta che in questo modo uccidiamo la vita e non scopriamo il mistero.

Il mistero resta mistero. Si sottrae alla nostra presa.

Ma ora mistero non significa semplicemente non sapere qualcosa. Non è la stella più lontana ad essere il più grande mistero, ma al contrario tanto più vicino ci è  una cosa, tanto meglio  sappiamo qualcosa, tanto più misterioso questo diventa per i noi. Non è l’uomo più lontano ad essere per noi il mistero più grande ma proprio il più vicino. E il suo mistero non diminuisce ai nostri occhi per il fatto che noi continuamente sappiamo qualcosa di lui; al contrario la sua vicinanza, ce lo rende sempre più misterioso. Si ha la massima profondità di ogni mistero quando due giungono ad essere così vicine fra di loro da amarsi reciprocamente. In nessuna situazione del mondo l’uomo avverte come in questa la forza del mistero e il suo dominio. Quando due persone sanno tutto l’una dell’altra, il mistero della vita diventa fra di loro infinitamente grande. E solo in questo amore si comprendono reciprocamente, sanno tutto l'una dell'altra, si conoscono per intero. Eppure, quanto più si amano e quanto più sanno l'una dell'altra nell'amore, tanto più profondamente si rendono conto del mistero della loro vita.

Dunque il sapere non supera il mistero, ma lo approfondisce. Che l’altro mi sia così vicino, questo è il mistero più grande.

 

D. Bonhoeffer

LA VITA RELIGIOSA E’ VITA PROFETICA?

 Nel linguaggio relativo alla vita religiosa sono presenti ambiguità che richiedono una breve chiarificazione. Si parla infatti di *vita consacrata+ per poter mettere sotto lo stesso ombrello religiosi e istituti secolari, ma io non credo che ci si possa appropriare del termine *consacrazione+ che appartiene di diritto a tutti i cristiani in quanto consacrati e , unti, o meglio, santificati attraverso il battesimo (si veda anche LITURGIA 44). Ogni vita cristiana è vita consacrata ed è proprio in questa prospettiva che bisogna comprendere nella teologia occidentale il carattere battesimale e crismale. Non è a caso che i testi del Vaticano Il siano molto discreti e sobri nell'uso dell'espressione anche se poi, al contrario, il CDC (Lib. II, parte 3) l'ha preferita a tutte le altre.

Sappiamo bene che l'espressione appare in Eusebio di Cesarea quando cerca di definire i due modi di vita stabiliti dalla legge della chiesa: *il primo modo che trascende la natura ... che tralascia il comportamento ordinario umano e che per un eccesso di amore celeste si dedica al solo servizio di Dio+ riguarda *quelli che si sono consacrati a Dio+ (hierómenoi), ma non a caso questa distinzione, che diventerà divisione tra i due generi o tre generi di cristiani, nasce con la cristianità e oggi non può più essere giustificata di fronte alla coscienza che unica è la vocazione alla santità nella chiesa di Cristo.

Certamente anche altri termini (per es. *vita religiosa+) restano ambigui, ma dovremmo chiederci se è proprio necessario mettere sotto un unico termine realtà che la grande tradizione della chiesa ha sentito diverse... Quanto al termine *profetico+ applicato al religioso, o alla dizione *vita profetica+ riferita alla vita religiosa, occorre far emergere alcune difficoltà inerenti alla sua utilizzazione. Il lessico attinente alla sfera del *profetico+ è applicato con grande enfasi alla vita religiosa, ma se poi si cerca di cogliere che cosa veramente significhi questo vocabolario nella coscienza di quelli che lo usano, si rimane normalmente molto delusi... Basta leggere le voci *Valeur prophétique+ nel Dictionnaire de Spiritualité, *Profetismo della vita religiosa+ nel DIP2 o altri articoli dedicati a questo tema per rendersi conto della verbosità diffusa e imprecisa che svela un uso pretestuoso del termine quando non ambiguo o addirittura distorto.

In verità nel NT si attesta che la chiesa è costruzione fondata su apostoli e profeti (cf. Ef 2,20), che Dio ha istituito nella chiesa *in primo luogo (próton) gli apostoli, in secondo luogo (deúteron) i profeti ... + (ICor 12,28) e che l'apostolo chiede ai cristiani di aspirare al dono della profezia (cf. 1Cor 14,39), peraltro ben presente nelle prime comunità cristiane (cf. AT 11,27; 13,1; 15,32; 21,9; ecc.). è anche vero che Gesù, in Mt 23,34, promette di inviare nuovi profeti! Ma è pur vero che all'inizio del in secolo, come legge H. U. von Balthasar, *in seguito all'abuso montanista della profezia, cade sulla presenza profetica nella chiesa una brinata i cui effetti sono presenti ancora oggi e non riparati+.

Con l'emergenza della chiesa imperiale avviene anche la nascita del monachesimo, e così nella chiesa appare *per un eccesso d'amore di Dio+, per un *massimalismo+, come scrive Eusebio di Cesarea, una vita altra, diversa, differente, diffusa nelle città e nel deserto; una forma vitae in cui si intravedono i tratti degli antichi profeti, soprattutto Elia e i suoi discepoli, e poi il nuovo Elia, Giovanni il Battista... Quei primi monaci sono ritenuti seguaci, eredi, imitatori del profetismo biblico: del monachesimo ‑ chiamato bíos prophetikós ‑ si fa il luogo privilegiato della sopravvivenza del carisma profetico.

In effetti, quando i cristiani si installano nell'impero costantiniano e rischiano di perdere il senso della trascendenza del disegno di Dio su di loro e sul mondo, quando si affievolisce l'attesa della fine del mondo e della venuta del Signore, appaiono i monaci con una forma vitae che è rottura con la mondanità, contestazione dell'affievolimento della fede e dell'omologazione dell'esistenza ai non cristiani, senza più la testimonianza del martirio, memoria dell'unico necessario *opportune et importune+ (cf. 2Tm 4,2)...

Non *ex officio+, ma *ex spiritu+ alcuni cristiani sono chiamati a una vita che, mediante una scelta radicale, diventa sgombra da molteplici impedimenti in vista della creazione di una comunità diversa, di un futuro diverso. Certo, i pericoli di questa emergenza erano e sono evidenti.‑ Per la chiesa e per la società erano necessarie:

 

profezia, non vaticinazione, né utopia xeniteià, non evasione o voyeurismo rottura con il conformismo, non clandestinità o incognito alternativa di vita, non settarismo contestazione, non rivolta e uscita dalla comunione.

Dunque vita monastica come vita profetica, ma a patto che non ci si arroghi questa qualità senza essere in realtà portatori di profezia. Chi è, infatti, il profeta? Dalla Scrittura e dalla Grande Tradizione il profeta appare come un portaparola di Dio. Non è colui che predice il futuro con un'ars divinatoria, ma che legge l'azione di Dio anche nel futuro, non è colui che contesta l'istituzione al solo fine di contestare, ma è colui che discerne e denuncia l'infedeltà e il peccato, non è colui che ha parole sue, ma ha solo una parola sorgiva, ispirata da Dio di cui egli ‑ quasi schiacciato ‑ si fa eco. Soprattutto egli fa sentire la presenza di Dio non solo con la parola, ma con tutta la sua vita, con il suo stile, con il suo linguaggio e il suo silenzio. Guglielmo di Saint‑Thierry nell'Epistola ad fratres de Monte Dei chiama la vita monastica *vita a tempore prophetarum praemonstrata et in Johanne Baptista instaurata et innata+. Ma questa definizione non può essere catturata per sempre, ma di volta in volta va verificata in una forma vitae concreta vissuta nella storia.

Si ricordi infine che non tutti i religiosi sono profeti alla stessa maniera e con la stessa intensità (sicuramente questi doni di discernimento e di profezia dovrebbero essere almeno di chi presiede!), ma nella comunità dovrebbe essere presente un orientamento profetico fondamentale, dovrebbe essere voluto e assicurato uno spazio, un terreno che fa germinare e nutre il dono della profezia.

Queste premesse mi paiono necessarie per chiarire le cose di cui parliamo e avere coscienza che appartengono alle *cose del Padre+.

 

1) La vita religiosa come profezia, oggi

 

è certo che la qualità profetica appartiene a tutta la chiesa, a tutti i membri del corpo di Cristo sacerdote, profeta e re, ma è pur vero che tra tutti i battezzati alcuni appaiono per forza, intensità ed eloquenza profeti con tratti specifici, con un messaggio proprio alla chiesa del loro tempo... Se la vita religiosa è vita profetica è proprio perché appartiene al popolo di Dio, sta nella chiesa e per il suo radicalismo può essere più adatta a far germinare la profezia e a esprimerla. I religiosi (non ci stancheremo mai di affermarlo) traducono nella loro vita la sequela di Cristo e per questo abbandonano casa, famiglia, campi, a causa dell'evangelo. .. Un unico necessario è la ricerca del regno di Dio (cf. Mt 6,33), l'unica loro regola è l'evangelo e nient'altro (cf. PC 2,2), nulla preferiscono all'amore di Cristo (cf. R13 4,21)... In questa loro rinuncia radicale fatta con tutta la loro persona ‑ corpo e spirito ‑, in quest'impegno totalizzante per l'attesa della venuta del Signore e del suo regno, in questo rischio di tutta l'esistenza, i religiosi acquistano una conoscenza (gnósis), o meglio, una epígnosis (la *sovraconoscenza+ di cui parla spesso Paolo) che in altre condizioni non è data in dono dal Signore né trova terreno propizio. Proprio in questa condizione di libertà, da riguadagnarsi ogni giorno a prezzo della rinuncia alla mondanità, i religiosi possono annunciare messaggi alternativi alla chiesa e al mondo.

Diventati soggetti allo Spirito santo grazie alla lotta ascetica (*versa il sangue e otterrai lo Spirito+, dice un apoftegma di abba Longino), dallo Spirito santo sono mossi fino a diventare pneumatofori, portatori dello Spirito perché affidati allo Spirito, portatori della Parola perché affidati alla Parola di Dio.

D'altronde la vita religiosa, se vissuta autenticamente, è in se stessa affermazione profetica che esiste una dimensione altra e supplementare dell'esistenza umana: più il riferimento alla fede è forte e intenso, più la vita religiosa appare una sfida lanciata a una cultura nichilista e ancora materialista che non consente all'uomo una dimensione che lo trascenda... La vita dei religiosi, in cui la *memoria Dei+ è continuamente fatta emergere tra le diverse operazioni, occupazioni e i molti lavori, e il tempo delle loro giornate, che i ritmi della preghiera liturgica e della preghiera personale rendono inabitato da una quotidiana memoria sabatica, profetizzano che Dio è presente e regna su chi lo lascia regnare su di sé.

Infatti le varie forme di vita religiosa, soprattutto al loro nascere, hanno esercitato un compito di denuncia di una situazione, hanno cercato di essere memoria dell'ispirazione originaria della chiesa (*forma primitivae ecclesiae+), sono state una spinta verso nuove forme di presenza tra gli uomini e nella storia. Non è un caso che le differenti forme di vita religiosa (non di ogni singolo istituto!) siano nate normalmente in un tempo di crisi della chiesa e che i fondatori abbiano sempre avuto una conoscenza spirituale della storia in cui vivevano, un discernimento chiaro dei segni dei tempi.

La vita religiosa, nell'intenzione dei fondatori, è sempre vita se­gnata da una differenza che le viene dall'evangelo, è una vita umana, umanissima, un' opera d'arte antropologica, ma altra, differente, tesa a mostrare che l'impossibile è possibile, che l'utopico, il senza luo­go ( u‑topos) trova per la forza dello Spirito santo un luogo di incar­nazione in una comunità, per quanto è possibile a uomini e donne che fanno voto non di non mancare all'evangelo, ma di non cessare mai di conformarsi a Cristo nella sua sequela. Il religioso, grazie alla sua assiduità con il Signore, al suo non essere distratto (amérimnos), al suo essere non diviso (aperíspastos), dovrebbe rappresentare una denuncia di ogni sufficienza delle realtà presenti, dovrebbe essere una proclamazione di speranza, una narrazione dell'attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, dovrebbe essere una vita tesa alla Parusia, libera da paure e perciò senza compromessi, salda nell'adesione *come se vedesse la realtà invisibile+ (Eb 11,27).

La critica profetica non si indirizza solo contro la mondanità, il mondo popolato dagli idoli molteplici e falsi, ma si esercita anche nei confronti delle istituzioni della chiesa e verso tutto ciò che èmezzo, strumento provvisorio (sacramento compreso!) e rischia di diventare un *assoluto+! Tutto dev'essere ordinato alla realtà della vita en Christé, alla realtà del *Cristo in noi+... Sì, *Cristo in noi speranza della gloria!+ (Col 1,27). La vita cristiana non deve ridursi a un insieme di strutture ecclesiastiche, di regole giuridiche, di prati­che cultuali perché queste, pur necessarie, hanno ragione di esistere se riescono a promuovere la comunione, la koinonia, se sono un ser­vizio alla comunione con Dio, tra i cristiani, con gli uomini tutti, fra­telli nostri e figli di Adamo.

Vita profetica: non si tratta solo di parlare, ma di vivere in modo, che la persona, le comunità religiose, siano presenze profeticamente eloquenti... E attenzione a non ridurre la profezia a un servizio, a una diaconia che risponda ai bisogni emergenti nella società, come oggi si tende a fare sotto la spinta dell'enfatizzazione delle esperienze del volontariato e dell'organizzazione della carità8, arrivando a battezzare con il termine di profeti dei lodevoli filantropi!

La dimensione profetica presuppone una viva attesa escatologica da parte della vita religiosa, un guardare al futuro non come prolungamento del passato, ma come tempo dell'Adventus, cioè tempo del nuovo che arriva, del Regno che viene. Come ammoniva Bloch, occorre *distinguere il futuro dall'avvento+: non ogni futuro infatti è concepito e vissuto come realtà che *viene incontro+, e solo con un futuro pensato come Adventus si spezza l'attuale coscienza anticristiana del tempo come infinità nota, diluita evoluzionisticamente, Mancante di attesa. C'è un testo di Bernardo di Clairvaux che per me è il più chiaro ed eloquente sulla vita profetica dei religiosi:

Fratelli miei, è un modo di profetizzare eccellentissimo quello al quale vi siete dedicati (con la vostra vita). In che cosa consiste questo modo di profetizzare? Come dice l'apostolo: non vedere ciò che è visibile ma l'invisibile, questo è sicuramente profetizzare. Camminare nello Spirito, vivere di sola fede, cercare le cose dell'alto, tendere verso ciò che sta davanti è profetizzare in modo ancora parziale, ma tuttavia grande. È così che un tempo i profeti

Infine va detto che nella dimensione profetica c'è sempre un'esigenza di creatività perché il ministero profetico sgorga sempre da Colui che *crea e fa nuove tutte le cose+ (cf. Ap 21,5) ed è dunque costretto a relativizzare tutte le cose e a rapportarle al regno di Dio veniente. Proprio per questo i fondatori nella vita religiosa sono stati anche creativi e hanno spesso sofferto i drammi dell'incomprensione e della persecuzione.

 

2) Vita religiosa e orizzonte escatologico

 

Per essere autenticamente profetica la vita religiosa deve riappropriarsi dell'orizzonte escatologico ormai quasi assente non solo nello spazio ecclesiale, ma anche nello spazio proprio dei religiosi.

 

Joliami Baptist Metz, già nel 1977 nel suo libretto Zeit der Orden?11, ammoniva i religiosi riguardo alla sequela dichiarando l'impossibilità di praticare questa senza l'attesa escatologica: infatti la parola autoritativa di Gesù: *Seguimi+ è inseparabile dalla nostra parola che invoca: *Vieni, Signore Gesù!+. Alla sequela radicale di Cristo deve corrispondere un'attesa radicale del Signore che viene. Ma è qui che noi ci chiediamo: dov'è questa coscienza escatologica nella vita religiosa? Non festeggia anche la vita religiosa (intendo: non solo liturgicamente, ma anche esistenzialmente) più il Natale a Betlemme che la Parusia, l'amen definitivo di Dio a tutta l'umanità, a tutta la creazione?

La vita religiosa dovrebbe essere orientata alla fine del mondo non come scacco di questa creazione, ma come novità, trasfigurazione voluta da Dio con un verdetto estrinseco rispetto alla storia e alla nostra vita! Non si tratta di vivere una dicotomia tra eschaton e storia, ma una dialettica sì! Tutti noi sappiamo che se c'è oggi una ricerca sul tempo, questa è condotta da non credenti che cercano di formulare la tesi che il tempo ha una fine che lo rende significativo, non vuoto, non infinito... Ma è triste che credenti e religiosi non abbiano nulla da dire su questo argomento! Eppure la vita religiosa dovrebbe essere esperta del tempo, per una conoscenza che le viene dall'attesa, dalla vigilanza quotidiana e permanente, e dovrebbe sapere che il tempo ha una fine e che può veramente avvenire che la venuta del Messia glorioso nella storia irrompa nella nostra vita (cf. ITs 4,15‑18). E un caso che la celebrazione dell'Avvento sia nata contemporaneamente alla vita religiosa nel IV secolo?

La vita religiosa deve dunque ripetere e tenere davanti a sé, come un Adventus efficace per oggi nella vita, l'orizzonte escatologico e in base a questa speranza plasmare la propria vita e quindi dare un messaggio alla chiesa e al mondo...

*E tempo che ci sia tempo+ scrive Paul Celan in una poesia. Sì, è tempo che ci sia tempo, soprattutto in una vita religiosa che corre come il mondo, che denuncia di non avere tempo mostrando quale sia uno dei suoi idoli, che vede il tempo mondanamente come evoluzione, che vede la propria vita segnata dall'atemporalità, la storia come aeternum continuuni omogeneo privo di sorprese, un infinito già noto, un eternità vuota. Il Concilio Vaticano Il dichiara la qualità escatologica della vita religiosa (LITURGIA 44), ma vede questa qualità soprattutto nella professione dei consigli evangelici all'intemo del *popolo di Dio che non ha qui città permanente ma va in cerca della futura+, il che è certamente vero, ma, secondo me, insufficiente. Non basta delegare alla professione dei tre voti la dimensione escatologica perché prima di essi, che appartengono soprattutto al soggetto che emette professione, l'escatologia è una dimensione plasmante la forma vitae... A me sembra che nel rinnovamento postconciliare della vita religiosa sia stata molto più presente la Costituzione Gaudium et spes piuttosto che la Dei Verbuni o la Lumen gentium!

Sì, vivere la dimensione escatologica significa pensare in modo diverso le costruzioni che si abitano, significa vivere un rapporto diverso con le stesse strutture della vita religiosa, significa ripensare l'autorità e i ministeri in modo diverso, significa leggere i sacramenti e la liturgia come strumenti necessari ma sempre provvisori, in vista del télos della vita cristiana che è l'agápe, la carità, l'unica dimensione che rimane nel Regno veniente (cf. 1Cor 13,13).

Mettere l'escatologia al cuore della propria fede significa vivere in tensione verso un compimento che non è ancora avvenuto. Significa vivere di speranza, non camminare alla luce della visione (cf. 2Cor 5,7), significa riguadagnare la consapevolezza della provvisorietà, dell'incompletezza di ogni comunità, di ogni testimonianza; e questo anche nel momento della piena fioritura, destinata prima o poi a lasciare il posto alla decadenza.

 

Proprio l'orizzonte escatologico potrebbe spingere i religiosi a una continua rifondazione del loro ministero, spingerli a confrontare l'ispirazione originaria (detta con parole ambigue *carisma del fondatore+) non solo con le nuove situazioni e i segni dei tempi e dei luoghi, ma anche con lo spirito delle nuove generazioni anch'esse munite, come la prima generazione, dell'unctio magistra assicurata dallo Spirito che chiama alla sequela Christi! Anche di fronte alla crescente ecclesificazione della fede cristiana che avviene da un secolo ai nostri giorni, i religiosi amanti della chiesa, al cuore della chiesa, potrebbero dire una parola che, senza contestazioni pretestuose, richiami la signoria eterna di Cristo e la provvisorietà delle letture o degli assetti ecclesiali‑ecclesiastici...

Perché gli uomini chiedano ai religiosi: *Sentinella a che punto è la notte?+ (Israele 21,11), occorre che vedano in loro dei *vigilanti+, quelli che hanno una parola da dire da parte di Dio, altrimenti si rivolgeranno ad altri... Ancora Johann Baptist Metz ha ammonito: Non c'è nella cosiddetta coscienza moderna ... un tipo particolare di mancanza di attesa, di apatia che induce quotidianamente ad un adattamento rispetto al *corso delle cose+ ad una mancanza di re­sistenza rispetto al *corso del mondo+, ad una passività? E l'idea di un'infinità evolutiva del tempo.

Sì, i religiosi dovrebbero interrogarsi se sono ancora capaci di re­sistenza al *corso del mondo+ quando questo corso è emergenza della mondanità e chiedersi se il futuro per loro non è, come per molti, un futuro vuoto per il quale non hanno né forza né voglia di invocare: *Vieni, Signore Gesù+, *Maranà tha+ (Ap 22,20).

Ancora una domanda, che mi pongo sovente in questi ultimi tem­pi in cui c'è da parte di molte componenti della chiesa una ricerca ossessiva della propria identità: si può giungere a delineare una pro­pria e autentica identità senza trovarla in Cristo e senza lasciarla ispirare dalle realtà escatologiche? In un tempo vissuto nella schizo­frenia tra le due venute del Signore ormai ben distanziate, c'è solo spazio per un tempo pensato come *nostro+, un frattempo destinato a essere segnato dal *saeculum+, cioè dalla secolarizzazione13. L’og­gi dell'uomo occidentale è contrassegnato dal vivere altrove, dal­l'appartenenza a elementi frammentati, dall'affermazione di un di­ritto‑di‑Permuta come se si disponesse di una serie di vite, dal vivere la propria situazione come esperienza... Se i religiosi partecipano a queste exouslai, a queste dominanti, come possono cercare la propria identità e trovarla in un rinnovato radicalismo evangelico?

 

3) Una vita profetica perché paradossale

 

Se è vero che ci sono degli stati permanenti nella vita ecclesiale (come il ministero presbiterale), occorre pur riconoscere che non c'è uno stato permanente del profeta... Il religioso è dunque profeta nella misura in cui dice una parola da parte di Dio con la vita e con la bocca, la vita religiosa è solo una condizione preliminare che può stimolare la profezia, ma di per sé non la garantisce: ecco perché occorre dire che la vita religiosa è profetica se traduce la paradossalità evangelica...

Il paradosso evangelico o gesuano non è solo un espediente per dare alla parola una qualità performativa, una capacità di attrarre l'attenzione, ma è sempre un'esigenza di radicalità, di decisione totale e irrevocabile... Questo, lo si voglia o no, costituisce una rottura, un urto con l'ambiente circostante mondano; può portare addirittura chi compie questa rottura a una marginalità rispetto al mondo, ma lo porta anche a una dialettica capace di inoculare messaggi nell'ambiente rispetto al quale vive una condizione di differenza. Guai a chi si arrende alla cultura dominante perché questo significa appiattimento, omologazione, irrilevanza della propria vita!

Parole e atteggiamenti di Gesù hanno saputo causare quest'urto con il suo ambiente (*Venne tra i suoi, ma i suoi non l'hanno accolto+: Gv 1,11) e proprio per questa paradossalità narrata e spiegata a tutti, Gesù ha scandalizzato gli abitanti di Nazareth, ha provocato un giudizio di pazzia su di sé da parte dei suoi familiari (Me 3,21 e 6,2‑4), ha dovuto denunciare nell'intervento di Pietro la grande tentazione di ogni cristiano che vorrebbe stornare la croce, rimuovere lo scandalo (Me 8,33)...

 

Ora, se il religioso nella sequela si conforma a Cristo cercando di seguirlo sempre, ovunque vada, nella dolcezza del suo insegnamento come nella durezza ignominiosa della croce (Me 8,34; Eb 12,2; 13,13), è normale che abbia una vita con tratti evangelici che appariranno paradossali agli altri. Come può la vita religiosa nutrirsi di immagini sovente arroganti quali *vita perfetta+, *vita angelica+, *vita apostolica+, *vita profetica+, *vita di perfetta carità+, *vita nuziale con Cristo+, ecc. se poi non incarna nella vita concreta queste sue definizioni? Il segno è segno di niente, millanta credito se non è espressione di una realtà.

No! O la propria vita la si costruisce alla luce dell'invisibile trascendente oppure si costruisce il proprio destino nella sottomissione alle realtà della terra intese mondanamente senza trascendenza, senza sbocco nella vita eterna. Si può infatti profetizzare nel nome di Gesù senza essere stati da lui né chiamati, né conosciuti, né sostenuti (cf. Mt 7,22), ma *in quel giorno+ si apparirà come operatori di iniquità (Mt 7,23).

 

4) Urgenze profetiche

 

Vorrei ora delineare alcune esigenze che mi paiono necessarie oggi per una vita religiosa che dia spazio alla profezia. Si tratta di alcune urgenze profetiche che riguardano tutta la chiesa, ma in particolare modo i religiosi, più adatti, per il radicalismo della loro vita, a esprimerle e a renderle leggibili ed eloquenti:

a) una vita di conversione b) testimoni del Dio vero e vivente c) il primato della fede d) la logica della croce.

 

a) Una vita di conversione

 

Pensiamo a due grandi testimoni del radicalismo evangelico: Francesco e Chiara. Quando si va all'inizio della loro vocazione,

Quel che appare evidente è la volontà di fare una vita di conversione (Chiara), di penitenza (Francesco). Quel che vogliono Francesco e Chiara è la *conversatio+, una vita da convertiti, cioè la vita di chi si è rivolto a Dio, di chi ritorna a lui. Il linguaggio di Francesco e di Chiara, differente ma complementare, sente il bisogno di leggere la vocazione non in termini di missione innanzitutto, ma in termini di cambiamento di vita, di conversione.

Le diverse riletture della conversione: il bacio al lebbroso, l'incontro con il crocifisso di San Damiano, l'incontro con l'evangelo... mostrano l'esigenza della conversione. Francesco è eloquente perché ha narrato, mostrato, spiegato la conversione facendosene esegesi vivente.

I voti, o meglio, la logica evangelica abbracciata dai religiosi deve plasmare e dare forma al religioso visibilmente: quelle tre libido, la libido amandi, la libido possidendi, la libido dominandi, non solo buone in sé ma necessarie all'edificazione di ogni persona, devono essere purificate e convertite in castità, in povertà, in sottomissione reciproca ed obbedienza e mai essere un assoluto, un fine che aliena e che offende la comunità degli uomini e la koinonia dei fratelli cristiani. Come Cristo ha lottato nel deserto contro queste tentazioni (cf. Mt 4,1‑11 e Lc 4,1‑13) così devono fare anche tutti i cristiani tra i quali stanno i religiosi. Se c'è lotta allora c'è conversione!

Ecco, noi dobbiamo porci la domanda: le nostre vite religiose narrano la conversione oggi? Fanno vedere che percorriamo un'altra strada? Questa è la domanda preliminare: gli uomini vedono in noi un cambiamento di vita? Se vedono che noi viviamo come loro, conseguendo gli stessi traguardi mondani, e che siamo incapaci di mostrare una vita *altra+, perché dovrebbero convertirsi?

 

b) Testimoni del Dio vero e vivente

 

Oggi si usa molto la parola *postmoderno+ per individuare l'oggi: al di là della pertinenza della definizione, è indubbio che in questi ultimissimi anni si registrano mutamenti di tendenza, appaiono novità esistenziali: emerge sempre più il frammentario, il molteplice, il complesso, il diverso...

 

Certamente siamo di fronte a una nuova stagione della percezione del divino. Ci avevano appena annunciato la morte di Dio quando abbiamo trovato molte ragioni per proclamarlo vivente più che mai... *Dio ritorna!+, si è detto nel gergo dei mass media... La revanche de Dieu è il titolo di un recente libro di Gilles Kepel. Si è anche pensato che ormai il problema non è tanto più credere in Dio, quanto credere nell'uomo dopo gli immensi crimini di questo secolo in occidente, in oriente, nel terzo mondo...

E invece? E invece è tomata la religione, non Dio! Se ieri il problema era *Cristo sì, chiesa no!+, oggi si può dire: *Religione sì, Dio‑Cristo no!+. La religione che è tornata è una religione dionisiaca, panica, una religione *placebo+ che assicura un appagamento eludendo la fatica e la sofferenza, una religiosità intesa come mistico incanto dell'anima, come presunzione psicologica, estetica di innocenza... à morto Marx, ma vive Nietzsche (mito sì, Cristo‑Dio no!)... Ecco, di fronte a questo orizzonte, l'urgenza della profezia: testimoniare, con un eccesso oggi forse necessario, la presenza del Dio personale e vivente; inventare un linguaggio paradossale, che mostri un chiaro discernimento tra gli dèi politeistico‑estetici accattivanti e il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non un Dio di tutti nel senso che si adatta a tutti, ma un Dio vivente per il quale non c'è solo *riferimento etico+, ma amore... Si tratta qui di conversione nel senso di mettere Cristo, immagine di Dio, al centro di tutto e di amarlo! 1 religiosi devono essere testimoni di un Dio al quale sappiano parlare e non di un Dio del quale soltanto parlino, un Dio che essi conoscano e frequentino assiduamente, senza distrazioni, come se vedessero l'invisibile.

Ripeto queste parole: come se vedessero l'invisibile... Gli occhi di una fede intensa e matura ci permettono di vedere al di là dei limiti del nostro intelletto e dei nostri sensi, ci permettono di vedere le realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18), la realtà che spiega tutte le cose: Dio. La vita religiosa, che era definita dai padri (Pseudo‑Macario) come un ministero di percezione nella veglia, nell'attesa di Colui che viene e nella celebrazione della speranza, deve testimoniare una Presenza e un presente abitato da Dio...

Chi canta con arte e convinzione per questa generazione le parole del salmo: *Il tuo amore, o Signore, vale più della vita!+ (Sal 63,4)? Chi mostra oggi di essere intento all'arte del discernimento della divina presenza se i religiosi non lo fanno? La vita eterna è conoscere Dio solo, il Padre (Gv 17,3). La forma di una religiosità che appaia per tutti adeguata, buona, proponibile, che non porti nessuna krísis, che non abbia nessun orizzonte escatologico può essere scelta nel grande supermercato religioso occidentale perché non richiede conversione, non porta segni di massimalismo di amore, è perfettamente omologata alla nostra cultura e alla nostra esistenza... Ma non sarà mai fede cristiana. A volte si ha l'impressione che essere cristiani e, mi si permetta, essere religiosi, appaia una variante minima e trascurabile, un vezzo piuttosto che un segno chiaro e netto che significhi un urto contro la mentalità mondana dominante... Oggi non si ama vedere né distinzioni, né diversità, e se si sapesse che il termine santi nel N.T. significa *distinti+, separati dalla mondanità per Dio, non lo si userebbe più! Non si è neanche più capaci di una *pratica cordiale dell'alterità+ (Stanislas Breton) e dell'assunzione della singolarità cristiana!

 

e) Primato della fede

 

Oggi i grandi orizzonti della vita religiosa sono espressi dall'evangelizzazione che si vuole *nuova+ e dall'impegno della carità... tempo inutile dire che queste sono esigenze permanenti per la vita della chiesa e dunque anche della vita religiosa, ma io non voglio nascondere i grandi rischi che si corrono se non si mettono accanto a loro anche le esigenze della spiritualità, di una vita nello Spirito santo, di una vita interiore che possono solo scaturire da un primato della fede. Giovanni Paolo Il non ha forse ricordato recentemente alla vita religiosa che il vero problema è la spiritualità, vivere nello Spirito santo? à certo che la fede, per sua natura, chiede di essere associata al render conto di essa (*Ho creduto e per questo io parlo!+: 2Cor 4,13), ma non si dovrebbe dimenticare che prima di ogni parola agli altri si tratta di ubbidire alla Parola, cioè di impegno spirituale che contenga la conversione personale e comunitaria, altrimenti il tutto si esaurisce in un vuoto altruismo... Solo una conversione in atto da parte della vita religiosa può presentarsi agli altri chiedendo un mutamento, un ritorno: religiosi mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di scorgere una salvezza efficace e depotenziando le forze di quel Vangelo che si vuole portare nel mondo.

 

La vita religiosa dovrebbe vivere solo di fede, *ex fide vivit+ (Rm 1,17), come la chiesa, e mostrare dunque questo primato con il suo massimalismo evangelico ricordando che il risultato dell'evangelizzazione non dipende solo da quanto lei predispone, ma soprattutto dal Signore (cf. 2Ts 3,1)!

Evangelizzazione non significa messaggio dichiarato utile dal mondo, né presenza che si impone, né visibilità che offende, né splendore che acceca e umilia, ma annuncio di *Gesù Cristo speranza in noi+ fatto con *parole di grazia+ (Lc 4,22) e con una *condotta bella tra gli uomini+ (I Pt 2,12).

Quanto poi all'impegno per la carità, non vorrei che il pensiero maggioritario espresso dagli uomini, *la vita religiosa serve+, incantasse i religiosi, sempre più entusiasti del riconoscimento che viene loro dalla società per i loro servizi e le opere che la società civile stessa non riesce a fornire...

La tentazione oggi per la vita religiosa potrebbe essere quella di stemperare l'annuncio del Cristo risorto, vivente e veniente, in opere di carità, in battaglie per i diritti dell'uomo, in organizzazioni di solidarietà e filantropia. Servizi, diaconie che non vanno certo dimenticate ‑ perché il religioso sta nella storia, sta tra i fratelli, e non gli è consentito nessun rapporto da spettatore nei confronti delle fatiche e delle sofferenze che attanagliano gli uomini ‑, ma non dimenticando mai che proprium, specifico del cristiano è la fede in Cristo, *la fede operante attraverso la carità+ (Gal 5,6), ma una fede che è l'opera, l'azione per eccellenza. *Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?+, chiedevano a Gesù, e Gesù ha risposto: *Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha inviato+ (Gv 6,28).

Se i religiosi mettono fiducia nelle loro opere e nel modo di concepire e rendere efficaci i valori, se appiattiscono la loro testimonianza a etica da offrire agli uomini, se riducono l'evangelo alla carità perseguita attraverso il volontariato e la soddisfazione dei bisogni emergenti della società, saranno buoni filantropi ma non profeti di fede! Questo lo ricordo per tutti i religiosi, non solo quelli contrassegnati da una semplice diaconia, ma anche quelli che dicono di non avere diaconie, ma poi contraddicono una fede che èsperare in Cristo e basta!

 

d) La parola della croce

 

E infine un'ultima esigenza che tratteggio in modo scamo, perché non ne sono degno; se la annuncio è solo perché spero che questa converta anche me che la ascolto: la parola della croce.

Il nostro Dio, quando oggi è percepito ed esperito da autentici cristiani (si vedano i grandi santi di questo secolo), è un Dio che in Cristo non solo si è fatto uomo, ma ha conosciuto la sofferenza, la morte, l'inferno... Non èpiù il Dio fiero di onnipotenza, ma è un Dio svuotato, è il Dio della synkatábasis, il Dio che sta seduto alla tavola dei peccatori, non il Dio che sta sul trono della condanna... Sì, la vita religiosa deve abbandonare, nel *palazzo+, il piano dove vige il regno dell'harpagmós, del *possesso geloso+ (Fil 2,6), per scendere a terra dove c'è il regime della povertà, della spogliazione, della croce... Fuori dal campo... per incontrare Cristo fino a condividerne l'infamia (Eb 13,13), perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma siamo in cerca di una città futura (cf. Eb 13,14). 1 profeti non stanno nei palazzi dei re, ha detto Gesù (cf. Mt 11,8).

Questa è la croce che coniuga la massima santità cristiana, l'urto, la contraddizione della *filautia+ mondana, con la solidarietà nella compagnia degli uomini, nella speranza che si realizzi la volontà di Dio, quella che vuole tutti gli uomini salvati (cf. I Tm 2,4).

1 religiosi non si sono forse definiti come successori dei martiri per eccesso d'amore per il Signore? Ma attenzione, come annotava Ilario di Poitiers c'è all'orizzonte un persecutore insidioso, un nemico che lusinga... Non fiagella le nostre schiene ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte, non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù, non ci stringe i fianchi con catene ma vuole il possesso del nostro cuore, non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro, il potere, il successo, i primi postils.

Sì, la croce e la parola della croce, ho lógos ho toú stauroú (lCor 1, 18) sono quelle che danno vera efficacia alla nostra fede, esse sole sono capaci di rendere profetica la nostra fede come è avvenuto per tutti i profeti dell'antica alleanza e della vita della chiesa.

 

 

Conclusione

 

In una serie di raccomandazioni mandata dall'Unione conferenze europee superiori maggiori (UCESM) alle singole conferenze episcopali in vista del prossimo sinodo si richiede innanzitutto il riconoscimento del carattere carismatico e profetico della vita religiosa da parte dei padri sinodali e poi si avanza una serie di richieste come se fossero diritti che cambiano il cammino dei religiosi oggi! Prima di pretendere questo, permettetemi di dirlo, occorre tentarlo quotidianamente, concretamente, individualmente e comunitariamente: se si è carismatici e profetici gli uomini, la chiesa lo vedranno, e se non se ne accorgeranno è perché saranno tanto malati da pensare malato chi èsano ed è diverso da loro. Diceva Antonio, il padre del deserto:

Verrà l'ora in cui gli uomini diventeranno folli e quando incontreranno uno che è diverso da loro gli si avventeranno contro dicendogli: *Tu sei folle!+ e questo perché costui non assomiglia a loro'.

 

Timothy Radcliffe, O.P.
Chiamati ad irradiare gioia

 

[Esiste una profonda contraddizione tra sacerdozio a depressione. Sarebbe un controsenso proclamare il vangelo in uno stato di scoraggiamento. Perciò, diventeremo credibili annunciatori della "buona novella" soltanto se saremo ricolmi di gioia].

Pubblichiamo questo speciale in coincidenza con l'emanazione dell'istruzione Il presbitero pastore e guida della comunità parrocchiale, da parte della congregazione vaticana per il clero. Non per commentarla o presentarla, ma per trattare in parallelo di un aspetto che riguarda direttamente il prete diocesano, ossia il problema dello scoraggiamento che spesso insidia anche i migliori pastori d'anime di fronte all'apparente fallimento di ogni sforzo pastorale. Il testo che presentiamo riprende con qualche breve taglio una conferenza tenuta da P. Radcliffe, già maestro generale dei domenicani, in un incontro con i preti dell'Inghilterra e del Galles, organizzata di recente dal Consiglio della conferenza nazionale dei preti. Consapevole del rischio che corre oggi il prete, il padre ha invitato i presenti a riscoprire il senso della gioia cristiana, quale presupposto per dare un senso pieno alla propria azione pastorale. Sacerdozio e scoraggiamento sono una contraddizione in termini e una controtestimonianza del vangelo, ossia della buona notizia che si è chiamati ad annunciare.

L'intervento ci pare guanto mai pertinente anche per tutti i sacerdoti religiosi, e per quanti sono impegnati nella pastorale. Ma il problema riguarda anche le religiose che nella loro attività possono sperimentare uno stesso senso di frustrazione di fronte a risultati che sembrano spesso, almeno in apparenza, fallimentari, anche se in realtà non è così. Tutto sta nel saper guardare alle situazioni non con l'ottica umana, ma con quella del vangelo.

Quando ho incontrato il consiglio della Conferenza nazionale dei presbiteri per concordare il mio contributo alla conferenza, mi è stato detto che molti sacerdoti in Inghilterra e nel Galles si sentono depressi e demoralizzati. Personalmente non saprei quanto sia diffuso questo fenomeno; ma anche senza contare il numero dei sacerdoti attualmente depressi, ci sono molte buone ragioni per esserlo: la scarsità delle vocazioni, la mancanza di una chiara identità sacerdotale, la caduta di rispetto nei confronti della nostra vocazione, gli scandali degli abusi sessuali, la scomparsa dei giovani da molte parrocchie, il disaccordo con alcune posizioni della Chiesa e così via. Vorrei soffermarmi su alcune di queste situazioni, e nello stesso tempo chiedermi come possiamo affrontarle senza sentirci demoralizzati. È un problema serio dal momento che esiste una profonda contraddizione tra il sacerdozio e la depressione. Non è possibile annunciare il vangelo in uno stato di depressione. Sarebbe un controsenso. Noi possiamo essere dei credibili portatori della "buona novella" soltanto se fondamentalmente, anche se non proprio sempre, siamo ricolmi di gioia. Non sto parlando di quell'allegria chiassosa tipica di quanti vanno in giro dando pacche sulle spalle e invitando la gente a essere felice perché Gesù li ama. Questo tipo di atteggiamenti mi fa sentire profondamente depresso. Ho sempre odiato una canzone chiamata Don't Worry. Be Happy (Non angustiarti. Sii felice). Come può permettersi una persona di venirmi a dire di essere felice? Vorrei piuttosto parlare di una gioia profonda propria della nostra vocazione sacerdotale. Questa gioia è strettamente legata alla sofferenza e perfino alla collera. La nostra vocazione ci porta a condividere non solo la passione di Cristo, ma anche le sue passioni, le sue gioie, le sue sofferenze e persino le sue collere. Sono le passioni di quanti vivono intensamente il Vangelo. Vorrei perciò affrontare con voi alcune di queste situazioni che ci possono effettivamente deprimere, per vedere in che modo farvi fronte con sofferenza e gioia e persino con collera, anziché deprimerci o demoralizzarci.... Non credo sinceramente di essere la persona più adatta per parlare di queste cose. Ho trascorso gli ultimi dieci anni fuori dall'Inghilterra e perciò non posso dire di conoscere a fondo l'attuale realtà ecclesiale inglese. Inoltre sono un sacerdote religioso e per quanto ci troviamo di fronte alle stesse sfide, a volte noi le affrontiamo in modo diverso. Mi consolo comunque pensando a uno dei miei confratelli statunitensi che al termine di una sua conferenza ricevette degli applausi molto tiepidi. Si sedette a chiese al vicino: "E' andata poi così male?". Questi gli rispose: "Non preoccuparti; io non me la prendo con te; me la prendo con ti ha invitato a parlare"….

La perdita d'identità

Come tutti ben sappiamo, prima del concilio Vaticano II il sacerdote aveva una sua chiara identità. Era una persona sacra, un uomo del culto, con un suo status ben preciso e un conseguente rispetto dovuto alla sua consacrazione. Era stimato perché aveva il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, anche se poi magari lasciava molto a desiderare come pastore e predicatore. Questa identità è stata messa in questione dal concilio. C'è stata la riscoperta del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio, della universale chiamata alla santità, del matrimonio come vocazione santa. Si è cominciato allora a vedere il sacerdozio soprattutto in termini di servizio e di leadership. Molti sacerdoti erano e sono entusiasti di questa nuova identità; in un certo senso essa ci ha liberato da un soffocante clericalismo e ci presenta un'identità più evangelica, più simile a quella del Cristo. Ma allora, qual è il problema? Come mai, a distanza di quarant'anni dal concilio, tanti sacerdoti si sentono oggi a disagio e confusi nella loro identità? Penso che i motivi siano sostanzialmente quattro.

1. L'idea del sacerdote servo e leader è molto bella, ma le parole tendono ad andare in due diverse direzioni. Se uno serve, di fatto poi si suppone che non comandi, come fa un autoritario maggiordomo. Mi ricordo di certi camerieri francesi che, con grande supponenza, tentavano in tutti i modi di far scegliere ai clienti il loro menù. Mi ricordo ancora di un vescovo irlandese che nel giorno della sua consacrazione episcopale annunciò di voler mettersi al servizio della sua diocesi con verga di ferro.

2. Nella teologia moderna l'immagine del sacerdote è spesso talmente idealizzata da riuscire irraggiungibile. Mentre mi preparavo a questa conferenza sono rimasto senza parole nel leggere che il sottoscritto sarebbe un brillante predicatore, un efficiente amministratore, un creativo genio liturgico, un paziente ascoltatore, uno stimolante leader, un guru spirituale, buono per i giovani e per i vecchi. Mi sono sentito profondamente demoralizzato; mi sono anzi convinto di essere un pessimo sacerdote che dovrebbe chiedere la laicizzazione. Quasi mi perdevate!

3. Tutta la teologia del "servizio" tende a sottolineare maggiormente ciò che il sacerdote deve fare anziché ciò che deve essere. Questo può facilmente portare a una visione utilitaristica del sacerdozio. Per essere un bravo sacerdote, uno dovrebbe lavorare in continuità e con efficienza; ma in questo mondo secolarizzato, con la costante diminuzione della pratica religiosa, ci sembra spesso di aver fatto ben poco e di aver accumulato tanti insuccessi.

4. Il concetto di ministero si è esteso enormemente. Negli USA l'80% delle persone che esercitano un ministero nella Chiesa sono laici, e l'80% di questi laici sono donne. Ne derivano due conseguenze. Anzitutto che il sacerdote si sente meno speciale. Vale la pena abbracciare il sacrificio del celibato e tanti stress per essere uno di questi ministri, mentre gran parte degli altri ministri possono godersi le gioie del matrimonio? Inoltre, il sacerdozio è oggetto di tante aggressioni da parte di coloro che se ne sentono esclusi, vale a dire uomini sposati e donne. Così il sacerdote rischia di sentirsi contemporaneamente deprezzato e invidiato, e questa è la peggiore delle situazioni. "Come osate escludermi da questo ruolo così importante che voi esercitate?".

È perciò comprensibile che alcuni sacerdoti, spesso giovani, sentano nostalgia dei "bei tempi passati", quando il sacerdote era percepito soprattutto come una persona del culto, felice delle sue mani consacrate. Altri sacerdoti invece temono ciò come un ritorno ad una visione elitaria del clero, apprezzano la teologia del "servizio", ma molti ammettono di sentirsi insicuri e di non sapere chi sono e che cosa significhi essere prete oggi.

Esiste una via d'uscita?

C'è una via d'uscita? Io credo di sì, e si può trovare nella Lettera agli Ebrei, l'unico documento neotestamentario che sviluppa una teologia del sacerdozio. Qui abbiamo una visione di Cristo sommo sacerdote, persona sacra che celebra un culto celeste. Ma la sua santità non lo separa affatto dagli altri, anzi lo unisce più intimamente a noi. Ci viene qui offerta una profonda visione del sacerdozio, che purtroppo non ho il tempo di sviluppare, che ci porta oltre la polarizzazione di coloro che vedono il sacerdote in termini di servizio e quanti invece sono nostalgici del sacerdote come persona sacra. La concezione veterotestamentaria della santità implicava la separazione del sacerdote da tutto ciò che era impuro e imperfetto. Il sommo sacerdote non poteva avvicinarsi a un cadavere. Ma nella Lettera agli Ebrei troviamo una visione della santità di cui è avvolto il suo capo. La santità di Cristo si mostra nell'accogliere tutto ciò che in noi sa di imperfezione peccaminosa. Questa santità non si esprime con la distanza ma con la vicinanza. Il momento culminante di questo suo sacro ministero fu quando egli abbracciò la morte, la più impura delle cose, e divenne lui stesso un cadavere. "Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta delta città. Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio" (Eb 13:12-13). I vangeli non parlano mai direttamente di Cristo come sacerdote, ma possiamo trovare in essi questa stessa teologia della santità. Egli abbraccia gli intoccabili, i lebbrosi; mangia e beve con i peccatori; è l'agnello sacrificale che muore sull'altare della croce. Così tutto il popolo di Dio è un popolo Santo e sacerdotale, poiché incarna l'abbraccio di Cristo di tutti noi nelle nostre vite disordinate, con tutte le debolezze e mancanze. La santità della Chiesa si manifesta nella sua apertura ai peccatori, non nella loro esclusione; James Joyce, parlando della Chiesa, l'ha definita il luogo dove "entra chiunque". Essa offre a noi ministri ordinati una visione del nostro sacerdozio, completamente libera dall'elitarismo clericale, e fondata sull'unione e identificazione con il popolo nelle sue lotte e nei suoi fallimenti. Consentitemi una confessione. Poco prima della mia ordinazione incominciai ad avere dei grossi dubbi proprio in riferimento alla mia chiamata al sacerdozio. Si era radicata in me una profonda avversione verso il clericalismo e ogni forma di superiorità sacerdotale. Temevo di essere ipocrita, dal momento che sapevo di non essere migliore di nessun altro. Ho accettato l'ordinazione esclusivamente in obbedienza ai miei fratelli. Potevo identificarmi con sant'Agostino che pianse quando fu ordinato sacerdote. I cinici pensavano che piangesse perché non era stato fatto vescovo, mentre in realtà era perché non desiderava essere ordinato sacerdote. Dopo la mia ordinazione vidi con terrore il parroco della mia parrocchia d'origine venire verso di me. Soltanto due anni prima, preoccupato della mia salvezza, mi aveva perentoriamente ingiunto di lasciare "quegli eretici domenicani", se volevo salvare l'anima. Quel giorno invece mi si buttò ai piedi chiedendomi di benedirlo con le mie mani consacrate. Corsi a rifugiarmi nella mia camera per trovare un po' di calma; ma tornai indietro dopo che uno dei miei confratelli tedeschi mi aveva seguito al piano superiore tentando di parlarmi di Heidegger! Era la cosa peggiore che mi potesse capitare!

Quel funerale a Westminster

Finalmente cominciai ad amare il mio sacerdozio in confessionale. È stato qui che ho scoperto che l'ordinazione ci pone a contatto con le persone proprio nel momento in cui esse si sentono il più lontano possibile da Dio. Noi siamo uno di loro, siamo al loro fianco, nel momento in cui guardiamo insieme la fragilità umana, le mancanze e i peccati, i nostri e i loro. Ciò che preoccupa nel clericalismo non è tanto che esso fa del prete una persona sacra, quanto piuttosto la concezione che ha del sacro, che è derivata dall'Antico Testamento anziché dal Vangelo. Una delle circostanze più sacre alle quali io abbia mai preso parte è stato il funerale di un certo Benedetto, circa venticinque anni fa. Gli avevo amministrato l'olio degli infermi poco prima che morisse di Aids, e la sua ultima richiesta fu che gli celebrassi il funerale nella cattedrale di Westminster. Questa richiesta comportò ovviamente non poche trattative. Durante i funerali, la bara fu posta al centro della cattedrale, con attorno i suoi amici, molti dei quali anch'essi ammalati di Aids. In questo centro simbolico della vita cattolica dell'Inghilterra c'era il corpo di uno dei più grandi esclusi della società odierna, un ammalato di Aids, gay e morto. In questo momento possiamo vedere l'epifania della radiosa santità di Dio. Questa visione del sacerdozio è essenzialmente missionaria, rivolta al di fuori. Ciò significa che il servizio della comunità cristiana non può essere il ministero dei preti con l'esclusione di tutti gli altri ministri. Per quanto grande sia la carenza di sacerdoti, la diocesi deve tentare di renderne disponibili alcuni per altri impegni esterni, in modo che quanti non avvicineranno mai la Chiesa possano essere raggiunti e accolti. E se il proprio ministero è quello parrocchiale allora bisogna che la parrocchia sia in certo senso missionaria, rivolta all'esterno. La santità del sacerdozio non comporta necessariamente una superiorità morale rispetto agli altri. È l'opposto dell'elitarismo. Ciò implica una certa dislocazione sociale del sacerdote ordinato. Noi non abbiamo un posto chiaro nella gerarchia sociale. Siamo persone sfuggevoli che si trovano a loro agio sia con i principi sia con gli spazzini. Dobbiamo incarnare un'inclusione che può non essere del tutto comprensibile alla nostra società, ed essere disponibili a tutti, al di là di ogni inclusione ed esclusione. Ero studente a Parigi quando il cardinal Danielou morì sulle scale mentre si recava a visitare una prostituta. La stampa si lanciò in tutte le possibili insinuazioni. Ma, per quanto ne sapessi, egli era un sant'uomo e un bravo sacerdote. Per certi versi, quello è stato il luogo ideale per la morte di un cardinale. Può andare ancora bene se ci vestiamo in modo alquanto strano, e a volte indossiamo persino vesti che altre persone hanno smesso di portare almeno cinquecento anni fa. Ciò può far pensare che ci mettiamo in contrasto con le strutture ordinarie. Mi viene in mente un mio confratello americano al cui nome, come nel caso di tanti americani irlandesi, era stato aggiunto anche quello di Maria. Questi si era messo a criticare, nella sala comune, le persone che sarebbero state ordinate sacerdoti in quei giorni, a suo parere tutte eccentriche, omosessuali e Dio sa cos'altro. Uno dei confratelli presenti gli disse: "Ascolta un po'; tu ti chiami Maria e porti anche una tonaca; ti sembra di essere una persona proprio così normale?".

Sacerdote per gli altri

Sto dicendo che il sacerdote è chiamato a rappresentare Dio nella sua vita ed essere un suo prolungamento verso l'intera umanità dispersa. Questo ci porta oltre la dicotomia di coloro che vedono il sacerdozio in termini dell'essere e quelli che lo vedono soltanto sul versante del fare. Tutto ciò che noi come sacerdoti ordinati siamo chiamati a fare è di esprimere e incarnare la santità di Dio vivendo in Cristo, trasformando i lontani in vicini, la morte in vita, la sofferenza in gioia. Come deve vivere la sua vocazione un sacerdote oggi, specialmente di fronte alla crisi della Chiesa e della società? La mia impressione è che la spiritualità del sacerdote diocesano è profondamente radicata nella vita dei laici. Il vescovo statunitense Untenor ha scritto che il sacerdote diocesano "appartiene alla comunità dei discepoli di Gesù Cristo. In quanto sacerdoti, condividiamo le stesse lotte dei laici, viviamo nello stesso loro mondo". Si tratta, nel senso più profondo, di una spiritualità laicale, di una spiritualità con e per il laos, la gente. Io sono cresciuto pensando che il prete di prima classe fosse un membro di un ordine religioso. Mi sembrava che ci fosse un po' di contrasto tra il termine "secolare" e la parola "sacerdote" come se il sacerdote secolare non fosse sacerdote dello stesso grado. Se accettiamo la teologia della Lettera agli Ebrei, allora il sacerdozio non è altro che l'accoglienza da parte di Dio di tutto ciò che è secolare, di tutto ciò che è laico. Il nostro "sommo sacerdote", infatti, era un laico. Essere sacerdote "secolare" esprime ciò che è al cuore di ogni sacerdozio. Forse siamo noi religiosi le persone strane a cui è necessario spiegare il loro sacerdozio. È un po' tardi per me scoprirlo dopo trent'anni di vita come prete domenicano. Se questa spiritualità è soprattutto inserita nella vita dei laici, allora è proprio qui che il sacerdote secolare spesso anche quello religioso — trova la sua più grande gioia, ma anche la più profonda sofferenza e persino lo scoraggiamento.

La vera leadership del sacerdote

Vorrei ora soffermarmi brevemente su tre aspetti particolarmente importanti: le difficoltà proprie della leadership, il frequente insuccesso delle parrocchie nell'essere comunità, così come noi le vorremmo, e infine la sofferenza di vivere il nostro sacerdozio così vicino a tanti fallimenti e a tante tragedie. Gran parte della letteratura teologica odierna è dedicata al tema del sacerdote in quanto leader. Devo confessare di trovarmi a disagio a questo riguardo. Perché? Anzitutto perché, come ho detto prima, si coniuga molto male con l'idea di servizio. Come può uno sentirsi un servitore e insieme un leader del popolo di Dio? Questa tensione può facilmente confondere il nostro rapporto con coloro con i quali collaboriamo. Questi infatti sono affascinati dall'idea che il sacerdote è qui per servire e possono rimanere un po' sorpresi che ciò consista normalmente nel dire loro quello che devono fare! Più radicalmente ancora, la parola leader mi richiama il mondo degli affari. Dal leader ci si aspetta che sia competente e risoluto, una persona che non mostra debolezza o esitazione, e capace di prendere decisioni coraggiose. Soprattutto la leadership è spesso valutata in termini di successo e di risultato, di raggiungimento degli obiettivi. Ma il sacerdozio non è fatto per il successo e il risultato. Spesso ci accorgiamo di non aver realizzato granché. Se pensiamo a noi stessi come a dei leader, allora ci accorgiamo del nostro fallimento. La nostra gente, quella che spesso vive e lavora nel mondo degli affari, se ha la fortuna di avere un impiego, non viene da noi sperando di trovare in parrocchia gli stessi valori che trova in ufficio. Eppure il termine è diventato molto popolare nella Chiesa, e spesso anche nella vita religiosa. Tutte le volte che mi chiedono quanto tempo ho esercitato la leadership, sono solito rispondere: "Mai fino ad oggi". Ma è la Lettera agli Ebrei ad offrirci una visione della leadership sacerdotale, nel senso che ci presenta un modo di essere in relazione con gli altri, che non è né di dominio né di fallimento. Gesù è modello della nostra fede, "per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo" (10:20). Lui cammina davanti a noi alla presenza di Dio. Gesù guida precedendoci, facendo il primo passo. La nostra leadership si manifesta nell'essere persone disposte a fare il primo passo: nel raggiungere gli esclusi e gli emarginati, offrendo e chiedendo perdono. Nella parabola del figlio prodigo, la riconciliazione avviene perché ambedue, il figlio minore e il padre, compiono il primo passo in due differenti direzioni. Il figlio fa il primo passo del ritorno a casa e il padre, quando lo vede ancora lontano, fa il primo passo per andargli incontro. Il Papa ci ha concretamente mostrato ciò che questo significa andando incontro agli ortodossi, agli ebrei e ai musulmani, col rischio anche di un rifiuto. Ha compiuto il primo passo chiedendo perdono per i peccati della Chiesa, nonostante un'opposizione in Vaticano. Questa è leadership. Allo stesso modo, per noi essere leader non significa essere competenti in tutto, persone di decisione in grado di dire a chiunque altro ciò che deve fare. Significa piuttosto compiere il primo passo davanti alla gente, accogliere quelli che forse non ci vogliono, invitare le persone a fare molto di più di quello che hanno sempre ritenuto possibile, perdonare e chiedere perdono. Questo può farci sentire soli. La vera leadership, in questo senso, può condurci fino alla solitudine della croce. Forse, nell'ethos universale del mercato, la nostra leadership puòconsistere anche nel lasciar cadere la maschera della competenza, nel far fronte ai nostri limiti e ai nostri fallimenti e non esserne preoccupati. Possiamo continuare a guardare in faccia la nostra fragilità senza paura. Leadership, soprattutto, significa compiere il primo passo dentro la vulnerabilità. La vera leadership ci dà la gioia profonda e la libertà di lasciar cadere le pesanti maschere dell'essere riconosciuti, di apparire uomini forti the avrebbero raggiunto grandi successi, se il Signore li avesse chiamati alla British Petroleum anziché al sacerdozio.

Comunità o stazioni di servizio?

Un'altra area nella quale possiamo facilmente incontrare l'insuccesso e lo scoraggiamento è quella delta creazione della comunità parrocchiale. Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, un sacerdote mi espresse la sua frustrazione perché troppo spesso la parrocchia era vista più come una stazione di servizio che non come una genuina comunità. La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa per una messa fugace anziché riunirsi attorno all'altare come popolo di Dio. Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. Tutto questo non sorprende. Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti nella lista dei luoghi di appartenenza, dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. Tutto questo può insinuare nel sacerdote l'idea del fallimento, di non essere riuscito a radunare la gente attorno all'altare e di costruire una comunità eucaristica. Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. Ogni comunità cristiana, sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della "Legio Mariae", è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, quella del Regno. Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere l'errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia.

La comunità "fallimentare" dell'ultima cena

La riunione archetipa della comunità cristiana è stata l'ultima cena. E penso al grande fallimento che fu quella comunità: uno dei discepoli ha venduto Gesù, un altro lo ha rinnegato e tutti i restanti sono fuggiti. Gesù non è riuscito a riunire i suoi discepoli in una comunità quell'ultima notte, perciò non dobbiamo essere sorpresi se non riusciamo a fare meglio di lui. Gesù ha voluto offrirci il Sacramento della comunità, il segno del Regno che doveva venire come dono nel tempo opportuno. Se la parrocchia non è una comunità grande e dinamica, ciò non è affatto segno del nostro personale fallimento. A volte non possiamo fare nulla di più che porre dei segni di ciò che ha da venire. Quando ero giovane studente domenicano a Oxford, andai nella cappellania a trovare Michael Hollings. Purtroppo questi mi mandò via con una ramanzina perché non amava i religiosi. Anni dopo imparai a conoscerlo a ad apprezzarlo. Dovunque andava teneva la sua casa aperta, a Oxford, Southall e Bayswater. Una volta colse un ladro intento a rubare; lo invitò a rimanere con lui per il tè. Sapevo benissimo che non sarei mai stato capace di affrontare un tal genere di vita, ma ho ammirato ciò come un segno del Regno. Certamente non era il Regno, almeno io spero, ma era un segno di quel Regno che è aperto a tutti. Noi non possiamo costruire da noi stessi questa comunità, ma solo porre qualche gesto che lo indica. Esso verrà come un dono e una sorpresa. Nel marzo scorso ero al Cairo e ho voluto visitare quella parte della città che i turisti raramente vedono, Mukatan. E la città dei raccoglitori di immondizie. In quel luogo vivono almeno 300.000 persone, in gran parte cristiani. Costoro ogni mattina vanno a raccogliere le immondizie della città e le portano a Mukatan dove le assortiscono per cercare quello che è possibile rivendere o riciclare. È il posto più sporco, puzzolente e deprimente che io abbia mai visto. Le persone sembrano mezze morte; anche i bambini che giocano a pallone in quelle strade sembrano quasi in letargo, come dei vecchi. A ridosso di questo orribile posto ci sono alcune rocce. Un artista polacco ha trascorso quasi tutta la sua vita a ricoprirle con immagini di Cristo glorioso. Quando i raccoglitori di immondizie ritornano a casa con i loro carretti ricolmi di carichi puzzolenti, possono ammirare su quelle rocce la trasfigurazione, la risurrezione e l'ascensione di Cristo. Le immagini proclamano che essi non sono raccoglitori di immondizie ma cittadini del Regno, destinati alla gloria futura. Essi si tengono vivi con dei segni. Questo è ciò che noi possiamo offrire.

Viaggio nell'anno liturgico

Il sacerdote è il portatore della buona notizia. Questo è il motivo per cui lo scoraggiamento mina in profondità la nostra vocazione. Nessuno ci crederà se abbiamo l'aspetto di persone depresse. Il ruolo del sacerdote è spesso quello di portare questa buona notizia proprio alla gente la cui vita è toccata dalla disperazione e dai fallimenti. Tony Philpot ha scritto che "il sacerdote diocesano ha a che fare, ex professo, con i fallimenti. In essi c'è evidentemente il suo stesso fallimento, la consapevolezza del suo peccato. Ma c'è anche il fatto che il vangelo è soprattutto perdono dei peccati, e la vocazione del sacerdote è quella di avere a che fare con i peccati del suo gregge.... Il fallimento è il materiale grezzo sul quale egli lavora". Nella nostra società siamo anche confrontati con tutti i mali e le sofferenze della società nella quale il crollo delle strutture sociali e la secolarizzazione significano per molta gente la perdita del senso della loro vita. Come possiamo continuare a essere dei gioiosi portatori di liete notizie quando attorno a noi vediamo così frequentemente famiglie rovinate, giovani smarriti e drogati e insieme il trionfo di una cultura della banalità? Evidentemente il primo modo per poterlo essere è con la celebrazione dell'anno liturgico Si tratta di una storia intessuta di sofferenze, di fallimenti, di umiliazioni, di peccati, di esilio ma che nello stesso tempo ci proietta oltre, verso il Regno. Ogni anno siamo liberati dall'Egitto e ci incamminiamo verso la Terra promessa. Cominciamo con l'Avvento e andiamo verso il Natale, e dalla quaresima verso la Pasqua, la Pentecoste fino alla festa di Cristo Re. Riviviamo la demoralizzazione degli israeliti nel deserto, e dei loro discendenti in esilio a Babilonia, e siamo condotti oltre. Gesù dice ai discepoli durante l'ultima cena: "Voi ora siete nella tristezza, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16:22). Noi riviviamo ogni anno una storia che trasforma la sofferenza in gioia.

Ma questa non è una risposta sufficiente. Nonostante le celebrazioni dell'anno liturgico alcuni sacerdoti si sentono ancora depressi e demoralizzati. Questa realtà annualmente rivissuta ci conduce verso la Terra promessa, ma quando stiamo per entrarvi e riposarci, bisogna cominciare tutto di nuovo. L'anno liturgico sembra perciò una specie di gioco dell'oca liturgico: giungiamo fino alla festa di Cristo Re e poi, oplà, scivoliamo giù di nuovo per cominciare tutto daccapo. In questa ripetizione senza sosta, qualche bagliore della fine della giornata deve apparire anche ora. Anche adesso dobbiamo assaporare la gioia e la pace del Regno.

Dobbiamo vivere ora in modo tale che il popolo di Dio colga qualche cenno della fine del viaggio. Non possiamo aspettare fino alla morte per diventare vivi. Diversamente, perché mai la gente dovrebbe credere che siamo in viaggio verso una meta?

Perciò credo che se il sacerdote vuole essere un portatore di buone notizie, allora bisogna che viviamo uno stile di vita in cui già ora irrompe l'eternità. Non è sufficiente sopravvivere. Dobbiamo fiorire. Ciascuno di noi ha bisogno di un genere di vita che realmente ci offra vita, di vivere pregustando la vita eterna. In caso contrario saremo sopraffatti dalle sofferenze del nostro tempo, oppure soccomberemo alla sua cultura della banalità. II nome primitivo della vita cristiana era "la via". Dobbiamo mostrare the è una via verso una meta e non un girare intorno nel deserto.

La leadership del cardinale Bernardin

Il grosso problema è di sapere come un sacerdote possa vivere questa via della vita. Alcuni sacerdoti diocesani mi hanno detto che è facile per noi religiosi parlare di una via della vita, specialmente quando non si hanno responsabilità parrocchiali. Noi religiosi infatti abbiamo una regola da seguire; viviamo in comunità; e abbiamo un maggior controllo sulla nostra esistenza rispetto ai sacerdoti diocesani, i quali sono sempre a disposizione dei loro parrocchiani e impossibilitati a prevedere tutte le peripezie della loro giornata. Altri sacerdoti negano tutto questo e dicono che il anche il sacerdote diocesano può e deve organizzare il suo tempo in modo da poter pregare, rilassarsi e riprendere energie. Altri ancora dicono che questo sarebbe possibile se il vescovo sapesse far fronte alla crisi della mancanza di sacerdoti e stringesse un po' i denti. Vorrei chiedervi di riflettere su come potete impostare la vostra vita sacerdotale in modo tale che già fin d'ora la gente possa intravedere in voi i primi frutti della nuova creazione: libertà, pace e gioia. Sono convinto che tutto questo è possibile. Anche voi, come Gesù, siete consegnati nelle mani degli uomini e delle donne. Come Gesù avete preso l'enorme rischio di donarvi liberamente alla gente. Quando il cardinal Bernardin fu consacrato arcivescovo di Chicago, disse ai suoi fedeli: "Per tutti gli anni che mi saranno concessi, io darò me stesso a voi. Offro il mio servizio e la mia leadership, le mie energie, i miei doni, la mia mente, il mio cuore, le mie forze e, sì, anche i miei limiti. Mi offro a voi nella fede, nella speranza, nell'amore". Questo è veramente un dono eucaristico di sé: "Questo è il mio corpo, dato per voi". E tuttavia Gesù rimase la persona più libera che mai sia esistita, proprio nella sua pima obbedienza al Padre. Ha consegnato volontariamente se stesso nelle nostre mani e tuttavia non è stato mai un passivo burattino. Ha impostato la sua vita proprio come ha fatto il cardinal Bernardin. Quando questi era giovane vescovo si era reso cthe la sua vita era interamente consumata nell'inseguire gli avvenimenti, o dal disbrigo degli affari. Aveva quindi avvertito l'esigenza di ritagliarsi uno stile di vita che includesse la preghiera e lo studio. Come possiamo anche noi trovare quella libertà eucaristica sì da poter donare la nostra vita e nello stesso tempo vivere uno stile di vita in cui la luce del Regno possa essere intravista? È un interrogativo che pongo a ciascuno di voi. Abbiamo bisogno di un ritmo di vita che ci permetta momenti di riposo, di riposare con Dio e anche con noi stessi. Abbiamo bisogno di momenti in cui poter scomparire e non fare niente, settimanalmente, mensilmente o annualmente. E questo, in primo luogo, non perché una volta riposati saremo più efficienti ed efficaci, per quanto sia grande il problema del burnout. Si tratta di qualcosa di più della buona amministrazione. La ragione è che la buona novella che predichiamo consiste nell'annunciare che tutti gli esseri umani sono chiamati a riposare in Dio e a condividere con lui il suo sabato. Questo è il vangelo: il fatto che siamo tutti cittadini del Regno nel quale un giorno soggiorneremo e dove consumeremo il nostro tempo con Dio per tutta l'eternità. La più grande dignità degli esseri umani è di essere chiamati a "giocare" con Dio per l'eternità, homo ludens. Chi mai ci crederà se non ci hanno mai visto riposare ora? Molti di noi sono costrittivamente occupati e come tali vogliono essere visti. Io sono uno di questi. Se vogliamo essere predicatori credibili non dobbiamo avere paura di farci vedere, a volte, un po' pigri. Dovremmo avere il coraggio di esporre sulle porte della nostra chiesa un avviso che dice: "Niente messa per i prossimi tre giorni. Sono in vacanza". Dobbiamo resistere alla diabolica voce interiore che ci accusa di essere dei cattivi preti. Io ammetto di essere veramente manchevole in questo. Infatti ho trascorso gran parte del mio tempo sabbatico in occupazioni e soprattutto assicurandomi che gli altri mi vedessero occupato. Qualche volta mi diverto con dei giochetti al computer; ma sono talmente abile nel cambiare la schermata che se sento arrivare qualcuno immediatamente vi faccio comparire la mia omelia della domenica. Ma questo è il modo di agire di uno che, come me, sta solo cominciando a credere nel vangelo di grazia che predico. Ricordo quando il maestro del nostro ordine fece una visita ai domenicani, a Oxford, una ventina d'anni fa. Volevamo essere sicuri che avesse l'impressione che noi eravamo dei frati fortemente impegnati, per il fatto che le nostre vite erano piene di buone opere. Quando o incontrammo al termine della visita, ci attendevamo compiaciuti una bella lode. Invece nient'affatto. Disse: "La mia unica osservazione è che tutti voi lavorate troppo. Non credete forse nella grazia? Non dovete salvare il mondo" . Era troppo tardi per dirgli che noi veramente non lavoravamo così tanto, ma che volevamo solo dargliene l'impressione.

Trasmettere la gioia del Regno

Infine, la gioia del Regno.... Fa parte della nostra vita sacerdotale gioire della vita stessa della gente, dei loro incerti tentativi di vivere e di amare, siano essi sposati o divorziati o singoli, siano persone per bene o gay, che vivano o no secondo gli insegnamenti della Chiesa. La santità del sacerdozio deve irradiare questa gioia. La Chiesa dovrebbe essere una comunità nella quale la gente possa scoprire la gioia di Dio nei loro riguardi. Questo è il nostro ministero. E il nostro sacerdozio dovrebbe fare di noo delle persone appassionate, appassionate della nostra gioia e appassionate della nostra sofferenza, della sofferenza della gente o della loro rabbia dovuta all'oppressione. Se troveremo gioia nella gente allora la gente troverà gioia in noi. Dobbiamo scoprire la gioia di Dio in noi, una gioia offerta spesso anche dalle persone più inattese, che forse non hanno mai creduto in lui. Se la gioia sta realmente al cuore del nostro sacerdozio, allora ci preoccuperemo della felicità degli uni per gli altri. La felicità dei sacerdoti dovrebbe costituire la prima preoccupazione dei vescovi e del presbiterio diocesano. Se ci accorgiamo che un sacerdote è triste, non è giusto pensare che debba arrangiarsi da solo. Se noi stessi siamo immersi nella tristezza, non possiamo fare affidamento su una specie di individualismo da uomini forti per venirne fuori. La gioia del sacerdote non è solo un suo problema privato nel senso che è parte intrinseca della sua predicazione del vangelo e la manifestazione della santità di Dio. Dobbiamo sforzarci di cercarla gli uni per gli altri. Dobbiamo avere a cuore la felicità degli uni per gli altri.

Ref.: Testimoni (Centro Editoriale Dehoniano), n. 18, 31 ottobre 2002, pp. 22-29.