Normalmente, utilizziamo il termine “spirituale”, o parliamo di uno che si occupa di “cose spirituali”, che coltiva la propria “spiritualità”, o definiamo uno come “persona spirituale”, per indicare chi si occupa o a che fare con lo “spirito”, con  l’anima, la parte immateriale e più elevata della nostra persona, per alcuni l’interiorità. L’idea che abbiamo delle le persone “spirituali” è quella di gente che si occupano di “cose elevate”,  distaccata da questo mondo. Tutto insomma ad indicare che occuparsi di “spirito” e “spiritualità” significa camminare alcuni metri sopra la terra, e a volte lontani dalla realtà. Anche nei films l’anima, la nostra parte appunto “spirituale, l’unico luogo dove si la vede, , come nel film “Ghost”, questa è rappresentata come il “nostro fantasma”, la nostra immagine che si vede e non si vede.
Questa nostra concezione comune viene dal pensiero filosofico dell’antica Grecia. La tradizione biblica non conosce i concetti astratti: per far capire a un ebreo dell’Antico Testamento il nostro concetto di bontà” bisogna mostrargli concretamente qualcuno che fa del bene, un uomo buono. Così “spirito” in ebraico ha a che fare con vento, soffio, aria che si muove, e per l’uomo in definitiva il respiro. E chi respira è vivo. Quindi il termine “spirituale” significa qualcosa che ha a che fare con la vita. Nel credo i cristiani dicono a proposito dello Spirito Santo: “che è Signore e dà la Vita”.


Diventare persona spirituale significa diventare persona viva, avere una “vita spirituale” vuol dire avere una vita viva, perché si può vivere, come in certi momenti difficili della nostra esistenza, ma, in realtà, essere come morti.
La Pentecoste, che i cristiani celebrano in questo mese, è allora il compimento della vittoria dell’Amore sulla morte, la possibilità di una vita viva senza più paura. Si parla nel racconto degli Atti degli apostoli che i discepoli parlavano una lingua che era capita da persone che venivano da paesi diversi con diverse lingue. Al di là della difficoltà a capire come questo sia avvenuto, quello che si può cogliere più facilmente è la capacità di una comunicazione che unisce rispettando le differenze, di una comunione che accoglie le diversità.
Stiamo vivendo, come dice S. Paolo, dei “giorni cattivi”, dove la diversità è scontro, dove lo stare insieme è possibile solo a partire da una pretesa di un pensiero unico, e dove il dissenso è sempre più difficilmente esprimibile. C’è bisogno di persone vive, libere, senza paura, che abbiano parole che aprano al dialogo e alla comunione. Una pentecoste rinnovata.