Allego sotto per tutti gli appassionati, alcune recensioni trovate su internet, relativamente un bel libro che consiglio di leggere.

CiroB.

Scheda libro

Autori: Wynton  Marsalis
Titolo: Come il jazz può cambiarti la vita
Traduzione: Edoardo  Fassio
Editore: Feltrinelli

La presentazione e le recensioni di Come il jazz può cambiarti la vita, saggio di Wynton Marsalis edito da Feltrinelli. Non è solo musica, il jazz. È anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua "filosofia" ci sono l'unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. È stato creato dai discendenti degli schiavi, ma sa parlare di libertà. È figlio della malinconia del blues, ma sa lasciarsi andare alla felicità più pura. Le sue radici sono nella tradizione, ma la sua sfida è la continua innovazione. E anche se vive di tensioni armoniche e ritmiche, ha saputo e sa essere ancora messaggero di pace. Wynton Marsalis fa leva sulla sua eccezionale storia artistica e sull'eredità dei grandi maestri per introdurci in questo universo fatto di opposti che si riconciliano. Con la passione del protagonista racconta storie del presente e del passato. Con la competenza dello studioso spiega cosa e come ascoltare. E soprattutto mostra come le idee centrali del jazz possano aiutare le persone e le comunità a cambiare il loro modo di pensare e di agire, con se stesse e le une con le altre.
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Più che un libro sul jazz, si tratta di un saggio del Wynton-pensiero. Parliamo di un personaggio che è stato dichiarato dalla rivista Time uno dei 25 personaggi più influenti d'America e che anche Life, per non essere da meno, gli ha tributato un simile riconoscimento. Non è dunque peregrino leggere, nero su bianco e di prima mano, le idee di questo influentissimo opinion maker.
Il nostro è anche l'unico musicista afroamericano ad aver vinto contemporaneamente grammy per il jazz e per la classica e ad essersi aggiudicato il premio Pulitzer con una opera musicale, Blood on the Fields, imperniata sulla storia della schiavitù in America.

Le tesi di Wynton Marsalis hanno nel passato suscitato notevoli polemiche. Il nostro si è distinto in una difesa oltranzista della tradizione jazzistica che non ammette deviazioni o fughe in avanti e questo ha fatto dire a molti (con qualche ragione) che così si vincola il jazz alla ripetizione di un repertorio e di uno stile consolidato, mentre si chiude la porta alla libertà di creare qualcosa di nuovo, magari radicalmente diverso. Esempi: non appena gli è possibile osteggia l'avanguardia, (salva soltanto Coleman e Coltrane), maltratta il Miles Davis del periodo funky–rock. Si appesantisce troppo nel definire lo swing la musica da ballo nazionale americana, chiudendo così la porta alle big bands più innovative. Per questi motivi il libro si può scindere in due parti: gustoso quando racconta aneddoti inediti sui musicisti e sul loro mondo professionale, che Marsalis naviga spavaldo dall'età di diciassette anni; pedante e stucchevole quando in nome di un politicamente corretto incensa oltre modo l'America e cade in facili luoghi comuni. Uno dei più succosi racconti di Marsalis tira in ballo una sua giovanile jam con il vibrafonista Milt Jackson. Attaccano un blues lentissimo e Wynton per impressionare pubblico e colleghi suona ultraveloce, usa tutti i trucchi possibili e mette in piazza tutto il campionario. E' convinto di aver fatto una buona figura, ma ogni speranza andò in frantumi quando Milt mi chiese: Hai notato la differenza tra come suonavamo prima e dopo che salissi tu?. Risposi: yeah, l'ho sentita.
Sai qual era la differenza?
Dimmela tu.
E' che tu non c'eri! (pag.67)
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Dura lezione di vita e di jazz. Un altro ironico rimbrotto lo rimedia dal sassofonista Charlie Rouse, per anni fiato nel quartetto di Thelonious Monk. Wynton suona il suo solito assolo esagerato, pieno di note acute velocissime.

Alla fine ero un bagno di sudore; lui (Rouse, n.d.a) mi guardò e disse: "bene questo dovrebbe averli messi a posto per un po'" (pag.113).

Come si nota da questi brevi passaggi il libro è ben scritto (grazie all'aiuto di un coautore come Geoffrey Ward) e Marsalis sa anche ridere di se stesso. Il jazz –scrive a più riprese Marsalis- è anche un modo di stare nel mondo e con gli altri. Al cuore della sua "filosofia" ci sono l'unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. Con competenza spiega cosa e come ascoltare. Mostra alcune delle idee centrali del jazz. Qui si annidano le osservazioni più interessanti; ad esempio una bellissima definizione di sezione ritmica:tre strumenti il cui solo compito è di far star bene la musica (pag.40).

Ci sono belle pagine dedicate all'arte dell'improvvisazione e all'importanza che ha il rapporto tra il singolo e il collettivo. Un concetto quello di individualità che può però tramutarsi in individualismo, pericoloso ed egoistico, in una competizione esasperata tra i musicisti che non aiuta l'arte ma la deprime. Ecco, leggendo il libro si ha l'impressione che i temi toccati siano importanti, ma che la trattazione semplicistica e declamatoria di Wynton, banalizzi un po' troppo.

Cito un esempio: il blues è malinconico, scrive Wynton, ma esprime costantemente nel corso della storia una grande felicità di popolo. Troppo facile: sono ormai tanti, completi e competenti gli studi sul blues che ne hanno messo in rilievo il doppio linguaggio dei testi e la critica continua alle condizioni sociali ed esistenziali in cui si trova a vivere il bluesman. La cosa strana è che poi Marsalis passa pagine e pagine a parlare di come la discriminazione razziale abbia avuto un peso enorme nella sua vita di adolescente del sud e ribadisce poi per altre innumerevoli pagine che il jazz è una musica che non deve applicare in nessun modo una distinzione in base al colore, in quanto arte nazionale americana. Temi che sanno di retrò per la nostra sensibilità, dibattuti e superati ormai da decenni, anche se repetita iuvant.

Un libro che può soddisfare chi vuole confrontarsi con un influente musicista contemporaneo, in una musica dove i grandi si possono ascoltare ormai solamente su disco.
Franco Bergoglio per Jazzitalia

"The Mayesty of the Blues": potrebbe essere il sottotitolo di questa agile guida introduttiva al jazz, che ha il pregio di sintetizzare norme teoriche basilari alla luce della diretta esperienza dell'autore.

La storia, le forme, il senso del blues costituiscono il filo conduttore di queste 167 pagine, in cui Marsalis riversa a pieno le sue eccellenti doti di divulgatore e polemista. A parte qualche considerazione destinata a far discutere (il feroce giudizio sul Davis degli anni '90), il suo è un vero e proprio atto d'amore nei confronti di un'estetica inebriante, qui sviscerata con raro acume interpretativo.

Per il neofita del jazz, sarà difficile trovare una guida più brillante di questa, che spieghi in modo conciso e fulminante cosa sono riff, break, shout chorus, vamp, trading four, assoli, etc. Sono efficaci anche i ritratti delle più importanti icone del jazz moderno (Art Blakey, Elvin Jones, Dizzy Gillespie, etc.), che hanno il pregio di saper andar oltre il dato musicale per toccare il lato umano e psicologico dei musicisti.

Poiché non mancano riferimenti ad episodi di razzismo subiti da ragazzo, alcune considerazioni dell'autore lasciano perplessi, per il quale agli "italoamericani piaceva fare a botte tra loro o anche con noi," "mentre i ragazzi ebrei avevano una tradizione più intellettuale".

E' la più recente opera letteraria sul Jazz, scritta dal trombettista afro-americano Wynton Marsalis, uno dei più interessanti personaggi musicali ed artistici in senso lato di oggi, oltre che grande solista jazz (ed anche di musica classica). Wynton, di stirpe totalmente New Orleans e di famiglia di grandi jazzisti, è stato – ed è – osteggiato da molti critici musicali (per assurdo convenzionali, perché essi ripudiano aprioristicamente le convenzioni tradizionali precedenti), per il suo sperimentare una nuova costruzione dello stile Jazz di New Orleans mischiato alle tendenze del Jazz contemporaneo.

Uomo di grande cultura, professionalità eccezionale e rara intelligenza, in questo suo nuovo lavoro esprime sensazioni, insegnamenti e testimonianze che, come nel suo Jazz, tengono in conto i sentimenti diversi che convivono in uno spirito arguto e sensibile, per creare un'opera a sé, autosufficiente, bella e accattivante, sostanzialmente didattica. Un libro che si legge tutto d'un fiato, soprattutto superato il primo quarto, più lento. Una progressione .. da mezzofondista. Ma le parti più intessanti sono le molte frasi taglienti che Marsalis sferza di suo, o che riporta da Maestri "antichi" (spesso per sua testimonianza diretta, malgrado la sua ancora giovanile età).

Ecco dunque passaggi che ci toccano forte:

Il Blues ci rassicura con l'imprevedibile inevitabilità della vita stessa. Per quanto le cose vadano male, potranno andare meglio. Sarebbero comunque potute andare peggio.. consultate Ray Charles ed il suo " Let the good times roll" (spendido! ndr) e saprete perché i Blues non moriranno mai.
Quell'incrollabile ottimismo fa parte di ciò che rende i blues così tipicamente americani... tendono a finire con degli " Everything will be all right". Può sembrare ingenuo , ma non c'è nulla di ingenuo in questa visione: il blues, in tutte le sue incarnazioni, nasce dal dolore.

...il più grosso errore che può commettere un jazzista è allontanarsi dal blues.

..quando accetti il blues, chiunque tu sia, accetti la tua condizione di essere umano.

...L'America è il nostro melting pot, ma lo Swing è il nostro ritmo e il blues la nostra canzone.

Qui sta il problema. Il Jazz, il più importante contributo artistico dell'America al mondo, ... fu creato da gente all'ultimo gradino della scala sociale.

Una ossessione derivata dal razzismo ...a chi appartiene questa musica? La risposta tende il tranello di rispondere se la migliore pelle sia bianca o nera.. Ebbene, se Louis Armstrong era il migliore ed era scuro, allora la risposta è scuro? E chi è un altro con la pelle scura che suona la tromba bene come lui?
Ne esistono con la pelle chiara – Bix Beiderbecke per esempio – che sono meglio del prossimo trombettista nero della lista? Chi è il nero che suona il soprano meglio di Bechet (creolo)? E che mi dite di Django Reinhardt, un gitano belga? E i musicisti neri che non suonavano bene come i bianchi Teagarden o Buddy Rich? Non erano abbastanza neri?..

Questo dice e molto altro, Wynton Marsalis.

Questo libro sarebbe da riportare integralmente. Voi leggetelo, se amate il jazz, l'intelligenza, la vita.

È buffo pensare che il jazz possa cambiarci la vita, anche perché la maggior parte delle volte e soprattutto dalla maggior parte delle persone,  viene visto come un genere elitario, quasi inarrivabile in alcune sue sfumature.

Il jazz a cui ci si stanno abituando è quello fatto per bar pieni di belle cravatte e docili scollature che portano trionfalmente tra una risata e un bacio sulla guancia un bicchiere di qualsiasi bevanda colorata possa  essere preparata da barman dai denti perfetti e orecchini luccicanti.

In  questi luoghi d’aggregazione oramai insegnano che la compilation Buddha Bar o Cafè du Mar siano una miscellanea di jazz, che la lounge music sia jazz e a dire il vero con queste premesse in testa resta un po’ difficile credere che questa musica, che molti dicono essere quella che suona Dio quando ha voglia di divertirsi, possa essere un’esperienza capace di coinvolgere il nostro essere e migliorarlo, magari migliorando anche dei lati su cui non riusciamo a lavorare affatto.

Invece Wynton Marsalis, un “vecchio” classe ’61 della scurissima New Orleans, ci fa ricredere e racconta la sua storia, una storia quasi universale fatta di esempi tecnici, di racconti ascoltati e vissuti (“Verso gli otto o nove anni, cominciai a notare qualcosa di molto strano. Anche se la maggior parte della gente del nostro circondario non si sognava di andare a un concerto di jazz- né a qualsiasi altro evento artistico- e non si degnava di considerare quella del musicista una vera professione, c’era comunque un certo rispetto per mio padre. M’immaginavo che forse c’entrava con il jazz, perché di sicuro il suo stile di vita non faceva presupporre il minimo successo materiale”) che riescono a battere sulla cassa del cuore e a tracciare melodie che risvegliano una passione innata e inconsapevole per la musica.

Questo genere che ai profani sembra così distaccata è in realtà il più grande strumento di insegnamento all’ascolto di sé e dell’altro (“Frequentare musicisti jazz rappresentava una scuola eccezionale per un bambino di nove-dieci anni, perché raccontavano storie bellissime e perché erano capaci di ascoltare. Quello era il loro mondo: parlare e ascoltare, ascoltare e parlare”) e soprattutto di condivisione con altre energie, passioni e volti (“ Il jazz fa sì che ogni individuo plasmi un linguaggio con i propri sentimenti e usi questo linguaggio, assolutamente personale, per comunicare la propria visione del mondo”). Un modo di “stare al mondo” con gli altri.

Una musica capace di passarti attraverso scuotendo ogni fibra empatica che ci trasciniamo, spesso stancamente, dietro e che si risveglia sotto l’incedere di quei riff essenziali, degli assolo che parlano di posti lontani e gente. La cosa più incredibile  però,  è che il jazz non è nostalgico, parla dell’hic et nunc. È una pura conversazione fatta secondo l’esigenza del momento stesso in cui si consuma, un’emozione necessaria in quel dato frangente intima e complice al tempo.

Il jazzista non vuole escludere, anzi, con le sue improvvisazioni, con il suo strumento vuole aprirsi, vuole che la gente possa entrare nel suo mondo, affondare in quelli che sono i reali sentimenti che sta provando.

Ascoltare. È solo una delle cose che può insegnarci questa musica di quattro sillabe cristalline e suadenti che si trovano a loro agio tra fumo, bicchieri bevuti con voluttà e occhi ipnotizzati, chiusi nei locali più caldi della nostra anima.

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La trama di Come il jazz può cambiarti la vita
Non è solo musica, il jazz. È anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua "filosofia" ci sono l'unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. È stato creato dai discendenti degli schiavi, ma sa parlare di libertà. È figlio della malinconia del blues, ma sa lasciarsi andare alla felicità più pura. Le sue radici sono nella tradizione, ma la sua sfida è la continua innovazione. E anche se vive di tensioni armoniche e ritmiche, ha saputo e sa essere ancora messaggero di pace. Wynton Marsalis fa leva sulla sua eccezionale storia artistica e sull'eredità dei grandi maestri per introdurci in questo universo fatto di opposti che si riconciliano. Con la passione del protagonista racconta storie del presente e del passato. Con la competenza dello studioso spiega cosa e come ascoltare. E soprattutto mostra come le idee centrali del jazz possano aiutare le persone e le comunità a cambiare il loro modo di pensare e di agire, con se stesse e le une con le altre.

E' un libro molto vario, nella prima parte, accanto a due magnifici capitoli iniziali in cui spiega quello che in fondo è il jazz, ne spiega anche il linguaggio dal punto di vista tecnico, con le varie figure tipo " l'assolo, il vocalese,lo shout chorus ecc.". Nella seconda parte affronta i grandi temi della vita umana da quello della razza al senso di comunità e/o appartenenza. Parla anche di alcuni grandi musicisti, non tanto della loro vita, quanto del loro "essere" e del loro contributo. Infine negli ultimi due capitoli torna a parlare di jazz a tutto tondo e di quello che rappresenta o può rappresentare. Su tutto domina la sua visione del jazz, musica che porta con se, nel profondo della sua natura, un messaggio positivo: rispetto e fiducia reciproci sul palco e fuori, anche per gli spettatori. "Il jazz è esprimere e/o ascoltare un punto di vista che può non corrispondere al tuo, ma farlo con lo stesso interesse come se stessi parlando tu. Rispetto e fiducia: ecco quello che insegna il jazz." Veramente bello.

“Spero di far arrivare a un pubblico nuovo il messaggio positivo della più grande musica americana. Vorrei far capire come il rispetto e la fiducia reciproci di cui i grandi musicisti danno prova sul palco possono cambiare la nostra visione del mondo e arricchire ogni aspetto della nostra vita, dalla creatività individuale alle relazioni personali fino al modo di condurre gli affari.”

Non è solo musica, il jazz. È anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua “filosofia” ci sono l’unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. È stato creato dai discendenti degli schiavi, ma sa parlare di libertà. È figlio della malinconia del blues, ma sa lasciarsi andare alla felicità più pura. Le sue radici sono nella tradizione, ma la sua sfida è la continua innovazione. E anche se vive di tensioni armoniche e ritmiche, ha saputo e sa essere ancora messaggero di pace.

Wynton Marsalis fa leva sulla sua eccezionale storia artistica e sull’eredità dei grandi maestri per introdurci in questo universo fatto di opposti che si riconciliano. Con la passione del protagonista racconta storie del presente e del passato. Con la competenza dello studioso spiega cosa e come ascoltare. E soprattutto mostra come le idee centrali del jazz possano aiutare le persone e le comunità a cambiare il loro modo di pensare e di agire, con se stesse e le une con le altre.

Wynton Marsalis (New Orleans 1961) è uno dei più importanti artisti americani contemporanei. Musicista e compositore, è molto attivo anche nell’insegnamento e nella diffusione della cultura musicale. A New York è direttore artistico di Jazz at Lincoln Center, una delle istituzioni musicali più prestigiose della città. Ha vinto nove Grammy Award, unico artista ad aver ricevuto il premio per cinque anni consecutivi. Nel 1997 il suo oratorio Blood on the fields, ispirato al lavoro degli afroamericani nei campi di cotone, è stata la prima e finora unica composizione jazz ad aver vinto il premio Pulitzer per la musica.
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Non è solo musica, il jazz. È anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua “filosofia” ci sono l’unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. “Una lettura magnifica. Intimo, istruttivo, assolutamente all’altezza dell’argomento.” Toni Morrison, premio Nobel per la Letteratura 1993.

Il libro
“Spero di far arrivare a un pubblico nuovo il messaggio positivo della più grande musica americana. Vorrei far capire come il rispetto e la fiducia reciproci di cui i grandi musicisti danno prova sul palco possono cambiare la nostra visione del mondo e arricchire ogni aspetto della nostra vita, dalla creatività individuale alle relazioni personali fino al modo di condurre gli affari.”

Non è solo musica, il jazz. È anche un modo di stare nel mondo, e un modo di stare con gli altri. Al cuore della sua “filosofia” ci sono l’unicità e il potenziale di ciascun individuo, uniti però alla sua capacità di ascoltare gli altri e improvvisare insieme a loro. È stato creato dai discendenti degli schiavi, ma sa parlare di libertà. È figlio della malinconia del blues, ma sa lasciarsi andare alla felicità più pura. Le sue radici sono nella tradizione, ma la sua sfida è la continua innovazione. E anche se vive di tensioni armoniche e ritmiche, ha saputo e sa essere ancora messaggero di pace.
Wynton Marsalis fa leva sulla sua eccezionale storia artistica e sull’eredità dei grandi maestri per introdurci in questo universo fatto di opposti che si riconciliano. Con la passione del protagonista racconta storie del presente e del passato. Con la competenza dello studioso spiega cosa e come ascoltare. E soprattutto mostra come le idee centrali del jazz possano aiutare le persone e le comunità a cambiare il loro modo di pensare e di agire, con se stesse e le une con le altre.

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Come il jazz può cambiarti la vita: All about jazz, vivere secondo la musica di Wynton Marsalis

A volte senti che devi faticare per diventare te stesso, ma o lo sei o non lo sei.

E' sufficiente affacciarsi alle prime pagine di questo libro per restare intrappolati nella rete di words & music di Wynton Marsalis. Nelle quattro righe di incipit cita Marvin Gaye, Stevie Wonder e James Brown (e siamo già oltre i recinti jazzistici) ma poi si volta pagina e spiega, parola per parola, battuta per battuta, il fondamento ritmico, ovvero lo swing, alla base del jazz e per estensione di gran parte della musica afroamericana: "Il tempo reale è una costante. Il tuo tempo è una percezione. Il tempo di swing è un'azione collettiva. Tutti nel jazz cercano di creare un'alternativa più flessibile al tempo reale. Il basso e la batteria impostano le coordinate del tempo di swing; gli altri nella band lo interpretano secono il loro punto di vista ritmico. Alcuni corrono, altri rallentano, altri ancora suonano esattamente sul beat. Ma tutti si spostano avanti e indietro per trovare e mantenere le tue azioni su un certo terreno comune. Vai a tempo quando le tue azioni sono abbastanza percettive e flessibili da rientrare nel flusso dell'unica costante: lo swing". Lì c'è tutto quello che "può cambiare la vita": un impercettibile scarto di lato, lo spirito d'insieme e, in conteporanea, dell'individualità, la spinta dell'istinto e dell'ispirazione, il coraggio di provare, di sbagliare e di provare ancora continuando a improvvisare. La lezione di Wynton Marsalis è tutta lì e la sua intenzione (dichiarata e condivisibile) è dissipare gli infiniti luoghi comuni cresciuti sul jazz come parassiti ad uso di ben altri parassiti: troppo difficile, troppo vecchio, troppo morto. E invece no: partendo da un specie di irriverente (e molto divertente) glossario dedicato alla terminologia del jazz, Wynton Marsalis spiega senza semplificare, illustra con arguzia, racconta e ancora racconta non solo come il jazz (ma anche il blues, e il rock'n'roll) sia una musica viva, ma soprattutto come contenga alcuni elementi, nella sua stessa essenza, che possono essere assunti quasi come una filosofia di vita. Concludendola con una galleria di ritratti e aneddoti dei più grandi jazzisti (e i nomi sono, tra gli altri, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Miles Davis, Ornette Coleman, Charlie Parker, Jelly Roll Morton), Wynton Marsalis delinea, frase per frase, una granitica apologia del jazz che, oltre a leggersi come un romanzo, è anche un chiarissimo manifesto politico (nel senso più alto e onorevole del termine, a scanso di equivoci). Indispensabile.

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Leggi un libro e ci trovi, per incanto, tutto quello che vorresti sentir dire da quelle pagine. Capita con questo Come il jazz può cambiarti la vita di Wynton Marsalis, per una volta impegnato nel tessere concetti e non storie musicali. Chi sia l’autore non c’è bisogno di specificar- lo, perché è facile essersi imbattuti in alcune delle sue registrazioni da solo o con la sua Family, dal padre Ellis – pianista acclamatissimo in quel di New Orleans – al maggiore Brandford (già salvatore della patria in alcuni dei brani anche meno felici di Sting). I Marsalis sono l’espressione più moderna delle radici e del sound tradizionale dixieland, attenti a non calpestare una sola cellula delle origini. Il titolo del libro è un po’ «forte», a esser cauti. Lui ricorda i primi passi tra curch band, gruppi, insegnanti e amici e la fatica iniziale che doveva fargli abbandonare i giochi di strada per mantenere vive e proseguire le tradizioni «negre delle zio Tom» (cda). Il ritmo e l’improvvi- sazione, lo swing e la fantasia, il tempo e la libertà nel tempo, concetti pesanti come il piombo che Wynton affronta con straordinaria levità, per convincere di quanto il jazz soffra del pre- concetto di musica difficile, strana, noiosa, e quanto invece stia là solo a raccontarci storie, scambio di battute tra amici. L’improvvisazione è, e deve restare, questo. Più si abbandoni l’idea Per chi suona, il jazz insegna ad avere grande rispetto per il lavoro di gruppo, per quello che gli altri stanno sforzandosi di fare insieme, ascoltarne con attenzione le idee, trovare nuovi spunti, arricchire uno schema di pensiero con altri validi (è divertente il racconto del timore reverenziale nutrito in una session domestica da Marsalis con Elvin Jones, quando alla fine quasi sottovoce Wynton gli disse di suonare un po’ più piano e Jones si scusò come un ragazzino, ringraziandolo del consiglio).

Per chi lo sente, il jazz insegna la fiducia nell’ascolto, acuisce la capacità di giudizio critico, sviluppa l’immaginazione e può causare un’irrefrenabile voglia di mettersi alla prova in prima persona per vedere di cosa si è capaci. Niente tecniche raffinate; l’avventura parte dal blues, che del jazz è la matrice più autentica, coessenziale, dalla gioia di ritrovarsi su quel terreno comune di 12 battute dove è impossibile che non si abbia proprio niente da dire o fischiettare.

Tra le pieghe di questo libro, racconti e giudizi su tanti dei protagonisti di questa musica, storie personali di una famiglia straordinaria, i soprannomi ed il gergo dei quartieri neri del Sud dell’America e, soprattutto, la felicità di essere, malgrado tutto, parte di un processo che da più di cent’anni non accenna a fermarsi, perché – parola di Wynton – il jazz non è morto, è vivo e sta benissimo.

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Forse il modo più giusto è iniziare da Wynton Marsalis. Un po’ perché molti sanno cosa Wynton Marsalis pensi delle musiche cosiddette “leggere” e quindi giochiamo la parte di chi inizia già a gamba tesa, polemicamente. Poi perché Wynton Marsalis è un musicista vivente e possiamo evitare di parlarne come un semi-dio, come è d’abitudine quando si parla di icone di qualsiasi linguaggio musicale. Inoltre – ma forse è IL motivo – perché l’intenzione dichiarata di questo libro, edito in prima edizione nel 2009, è “correggere il modo di ascoltare il jazz, dimostrando che i concetti che stanno alla base di questa musica possono cambiarvi la vita“(pag 11).

Terapia? Forse. Fatto sta che il dato certo, quando si parla di jazz, è che non si parla solo di musica. Ok, pressappoco la stessa affermazione che potresti sentire da un appassionato di musica hip hop (il parallelo è d’obbligo, così ci capiamo prima) – per quanto l’hip hop stia a certi tipi di produzione musicale come il jazz sta a certo smooth jazz che nello svolgimento ricorda a malapena la pentatonica – che tirerebbe in ballo la vecchia storia delle 4 arti. Il jazz è “un modo di stare al mondo“.

Cerco di farla più semplice. Il punto vero di contatto fra hip hop e jazz è – o così dovrebbe essere – che al centro di tutto dovrebbe essere posto il potenziale di ogni musicista/rapper/dj che si esprime in modo estemporaneo, componendo al momento. Qui ed ora: l’improvvisazione. Ossia, prima di tutto, costruirsi quel bagaglio di capacità che consentono di trasmettere agli altri un’efficace ricostruzione del proprio punto di vista musicale legato a quel preciso momento.

Per chiarezza: il punto di contatto fra hip hop e jazz, nella loro essenza, l’ho dedotto io. Diciamo che Marsalis ha un’idea abbastanza precisa sul rap da classifica e sugli stili di vita che innesca e non intendo svelarla, perché spiegarla a parole mie potrebbe farti travisare ciò che di genuino c’è nel suo pensiero. Io sono d’accordo con Wynton Marsalis e con ciò che pensa di questi argomenti.

Una cosa è sicura: questo libro è un ottimo strumento per chi vuole avvicinarsi al cuore pulsante del jazz anche senza conoscere i meccanismi della composizione in tempo reale. E’ come guardare dall’alto un’operazione chirurgica e capire il vero motivo dell’operazione anche senza essere il chirurgo e senza avere capacità di intervento.

Se poi le hai, meglio ancora……

Mi è sembrato giusto iniziare lanciando un libro, perché forse chi ci legge, come te, ha più confidenza con la parola scritta che con il flusso velocissimo delle note di Coltrane o con la complessità delle armonizzazioni di Evans.

Per cui inizio cercando – o meglio ancora fornendo – una gamma di frequenze sulla quale possiamo sintonizzarci in tanti, per discutere – o lasciare commenti – sulla stessa lunghezza d’onda. O diversa. Perché il jazz parla dell’unicità dell’individuo, ma anche della sua capacità di ascoltare gli altri.

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Nel 1996 la rivista Time ha incluso Wynton Marsalis tra le venticinque persone più influenti degli Stati Uniti; l’anno successivo il trombettista si è aggiudicato – primo jazzista della storia – il Premio Pulitzer per la Categoria Musica (grazie alla composizione dell’oratorio Blood on the Fields, una ricostruzione della storia del popolo nero, dalla schiavitù alla conquista della libertà). Nel 2001 è stato nominato Ambasciatore di Pace dell’ONU, mentre lo scorso gennaio ha tenuto un concerto a Washington per l’insediamento del presidente Barack Obama.

Nel corso degli anni le sue quotazioni sono sensibilmente cresciute, al pari della sua fama, e oggi Marsalis è arrivato a essere ritenuto «uno dei 15 personaggi più importanti d’America»; di sicuro è uno dei musicisti più famosi del pianeta, uno di quelli che sono stati in grado di riportare il jazz all’attenzione del grande pubblico su scala mondiale. Un artista che, per naturale inclinazione, è fondamentalmente allergico a schemi o definizioni. Come jazzista, poi, è senza dubbio una figura atipica. Innanzitutto perché non è un semplice jazzista, o meglio, non è solo un jazzista; e poi perché va contro tutti i luoghi comuni che nei maggiori esponenti di questo genere musicale identificano personaggi emarginati e maledetti, divorati dall’estro, ma incapaci di leggere uno spartito.

Classe 1961, rampollo predestinato di una nobile famiglia di artisti, Wynton Marsalis rappresenta infatti uno dei rarissimi esempi di “musicista assoluto”: il solo ad aver vinto due Grammy Awards – nello stesso anno e per dischi differenti – nella categoria Jazz e Classica; uno dei pochi che, a un talento innato e a una spiccata predisposizione verso l’improvvisazione, ha deciso di affiancare studi rigorosi e un curriculum accademico, e il cui nome si può indifferentemente trovare sui cartelloni di un fumoso locale di Manhattan o in un tempio sacro della musica classica come il Met. La sua è d’altronde una storia che parla da sempre di impegno e ricerca, di continui cambi di registro e (più o meno) relative conferme, ma anche di accese critiche per la sua musica «fredda e perfetta» o per il suo spiccato istinto commerciale.

Ogni sua mossa, in qualunque direzione si muova, è inevitabilmente destinata a lasciare un segno nel panorama internazionale della musica jazz, e non solo; occhi dunque ancora una volta puntati su di lui perché, nel giro di poche settimane, mentre nei negozi di dischi di tutto il mondo è approdato il nuovo album He and She, sugli scaffali delle librerie italiane ha fatto capolino Come il jazz può cambiarti la vita (Feltrinelli), una sorta di saggio di carattere storico, sociologico e antropologico concepito con l’intento di offrire un valido strumento per avvicinarsi all’arte del jazz e per trarne insegnamenti esistenziali, come emerge chiaramente dalla stessa dichiarazione d’intenti dell’autore: «Spero di trasmettere il messaggio positivo della più grande musica d’America».
Al centro c’è ovviamente lui, il trombettista di New Orleans, nato e cresciuto nella terra che ha visto nascere il jazz, tra le contraddizioni delle inarrestabili spinte verso libertà e uguaglianza da una parte e gli ultimi sussulti della discriminazione razziale dall’altra. A fianco di riflessioni di carattere estetico e filosofico, metafore ardite e suggestive, ripercorrendo le sue memorie e i punti fermi della sua formazione di uomo e di artista Marsalis si sofferma innanzitutto sulla profondità d’ispirazione del blues, sulla centralità dello swing e sulle lezioni imparate dai primi maestri, di musica e di vita («Voi siete creativi, chiunque siate; riconoscete la vostra creatività e abbiate rispetto per la creatività e gli spazi creativi degli altri»), ma anche sui fondamenti ideali e i traguardi da raggiungere («Le imperfezioni possono aggiungere fragranza e personalità alla musica; in un’epoca in cui il massimo per i giovani è tendere alla perfezione e alla finezza degli spot televisivi, l’idea di “lavorare con quello cha hai” rappresenta un’utile alternativa»).

Il capitolo più coinvolgente del libro è sicuramente quello dedicato ai grandi maestri del jazz, i musicisti nei confronti dei quali l’autore si sente più che ad altri debitore; da Louis Armstrong («Il suo suono ha il potere di guarire; ha la saggezza e il perdono. Ha la voce che vuoi sentire dalle persone cui ti rivolgi quando ti è capitato qualcosa di veramente brutto…») a Duke Ellington («Rivolgeva la sua musica alla ricca vita interiore di uomini e donne; un tocco della sua mano sul pianoforte e la luna entrava in una stanza…»), da Billie Holiday («Evocava sentimenti drammaticamente oscuri affrontando la dolcezza dello swing; se metti del sale in una bevanda dolce la rendi più dolce, ma se aggiungi zucchero all’amaro diventa ancora più amaro: così era Billie…») a John Coltrane («È un predicatore, un esortatore; vuole convertirti con il suo sassofono. Qualcosa nel suo suono ci penetra con la compassione della bellezza più pura e sublime; è irresistibile, la sua sincerità fa venir da piangere…»), passando per i giudizi controversi su Miles Davis, ritenuto un geniale ricercatore poi caduto nella trappola «dell’adulazione e del mercantilismo» («La personificazione del vecchio detto: “Il meglio, quando è corrotto, diventa il peggio”…»).

E tra una considerazione e l’altra, nella parte conclusiva la lezione dell’artista arriva – giustamente – ad affrontare il delicato tema dell’educazione e delle prospettive che si vanno ad aprire per le nuove generazioni, culminando con un’amara constatazione: «I ragazzi sperano che l’insegnamento dia loro la possibilità non di imparare dai migliori, ma di diventare uno di loro. Il fatto che nella musica esista della sostanza che valga la pena di apprendere non viene preso in considerazione…». Ma questo, professor Marsalis, dipende anche dalla proposta che viene offerta loro dagli adulti che si trovano davanti: dal punto di origine sopra cui poggiano le loro convinzioni e dalla direzione verso cui rivolgono il loro sguardo, e non solo dalle belle parole che usano, dai premi che vincono o dai dischi che vendono.

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Introduzione
“Ecco, quello è il jazz”

Nei primi anni settanta, sull’onda del movimento dei diritti civili – quando James Brown, Marvin Gaye e Stevie Wonder erano i sovrani della musica popolare afroamericana, quando la gente sfoggiava acconciature afro alte otto pollici e abbigliamenti casual in poliestere e c’era ancora nell’aria profumo di rivoluzione –, l’ultima cosa a cui chiunque si ritenesse minimamente alla moda poteva prestare attenzione era la musica Dixieland: fazzoletti in testa, atteggiamenti alla zio Tom, mossette parodistiche e sorrisi per i turisti. Soltanto il nome te la faceva odiare. Perciò quando mio padre disse che avrebbe portato me e mio fratello Branford a suonare in un’orchestrina per ragazzi diretta da Danny Barker – il leggendario suonatore di banjo e di chitarra – tutto ciò che ci potevamo immaginare era musica da cartoni animati, o qualche forma di servilismo da tempi passati. E poi, che cos’era un banjo? Qualcosa che suonavano per Frederick Douglass? Caspita, ci perdevamo le scorrazzate del sabato per tornare ai giorni della schiavitù. Grandioso!
In effetti Danny Barker aveva suonato banjo e chitarra con tutti, da Louis Armstrong e Sidney Bechet a James P. Johnson e Cab Calloway, ma a noi nessuno di questi nomi diceva alcunché. All’epoca abitavamo a Kenner, Louisiana. Branford aveva nove anni, io otto. A mio padre ci volle circa mezz’ora per portarci in macchina a New Orleans, allo spiazzo dove la Brass Band della Fairview Baptist Church di Barker faceva le sue prove.
Là incontrammo un vecchio che supposi fosse il signor Barker. Era un personaggio pittoresco, pieno di vitalità e di fantastiche storie che sapeva raccontare bene. Amava la musica di New Orleans e amava i bambini. Quel giorno ci diede una lezione decisiva sul jazz – e sulla possibilità di una vita basata sull’espressività personale e sul rispetto reciproco. Una lezione profonda e indimenticabile.
Cominciò con la batteria: “La grancassa e il piatto sono la chiave di tutto quanto. Suoniamo in quattro quarti. Uno, due, tre, quattro. La grancassa suona sull’uno e sul tre e il piatto sul due e sul quattro. È come se si rispondessero l’un l’altro. Così, quando la grancassa fa bummp, si risponde con il piatto: chhh”.

1 2 3 4
bummp, chhh, bummp, chhh
1 2 3 4
bummp, chhh, bah-bummp bummp
chhh

“Ecco, in quel quarto colpo della seconda misura, il piatto e la grancassa vanno d’accordo tra loro. E quando li colpite allo stesso tempo, ecco, quello è il jazz.
“Vedete,” continuò, “voi dovete saltellare tutt’attorno mentre eseguite le vostre parti e dovete assecondare il ritmo, proprio come se steste ballando o saltando la corda.”
Poi passò alla tuba. “Ecco la tuba, il più grosso strumento che ci sia. Voi suonate delle grosse note e lasciate degli spazi. Le cose grosse si muovono lentamente.” Cantò qualche passaggio di tuba. “Voi siete collegati con la grancassa. Voialtri due siete là sotto, perciò non vi dovete separare. Voialtri siete il pavimento – le fondamenta del beat.”
Il tipo con la tuba cominciò a suonare. Barker disse: “Dovete suonare con sentimento. E quando suonate con sentimento, là sotto dovete saltellare”. Così si mise a saltellare su e giù. Poi cominciarono insieme la tuba e la grancassa. E lui disse: “Dovete mescolare i suoni e suonare sempre insieme!”. Poi, dopo che ebbero fatto un rumore dal fondo della pancia, come un brontolio, disse: “Ecco, quello è il jazz”.
A questo punto si voltò verso il trombone. “Che cos’hai tu che non ha nessun altro?”
“La coulisse,” disse il ragazzo.
“Proprio così. Nel jazz, devi sempre avere qualcosa che ti rende diverso dagli altri. Sii fiero di essere te stesso. Tu suoni uno strumento basso. Più suoni basso, più lento va il ritmo. Adesso voglio che suoni una parte come questa.” E cantò la parte. “Di tanto in tanto, rrrhhhhhrrrraawwmmmp, voglio che tu questa parte la scivoli, la frantumi, la riduca a una nota. Falla a pezzi!” La tuba, la batteria e il trombone cominciarono a suonare assieme, e sembrava davvero orribile. Barker disse: “Ecco la musica jazz!”.
Poi si rivolse ai trombettisti. Disse: “La tromba è lo strumento solista. Voi dovete essere forti. Siete voi a suonare la melodia”. Così ci insegnò una melodia, Li’l Liza Jane. Cominciammo a suonare. E una volta che avemmo suonato la melodia, procurandole parecchie ferite piuttosto dolorose, lui disse: “Suonatele con personalità, le note. Scuotetele! Giocateci attorno! E suonate con ritmo. Dovete pure saltellare”. Tutto quello che voleva che eseguissimo ce lo cantava prima. Così suonammo la canzone con tutti gli altri e sembrava rumore puro. Già, era assolutamente terribile, ma in fondo ne poteva venir fuori un bel divertimento.
Dopo andò dal clarinettista: “Vedete tutti questi tasti che ci avete? Voi potete suonare acuto, più acuto di una tromba, potete fare rapidi salti di nota, trilli e roba del genere. È questo che vi distingue dai trombettisti. Voglio che voialtri ogni tanto le facciate tutte queste cose. Suonate la stessa melodia della tromba ma un’ottava più su”. Cantò anche la parte del clarinetto. I clarinettisti squittirono e scricchiolarono. Barker ascoltava. Poi disse: “Tutto ciò che fate, fatelo con personalità. Cavate fuori, piegate, pattinate quelle note”. Loro ci provarono.
Barker disse: “Quello è il jazz! Adesso fatemi sentire i clarinetti e le trombe sulla melodia. Ma quando suonate tutti insieme, dovete parlare tra di voi. Il clarinetto deve riempire lo spazio lasciato dalla tromba e la tromba deve per forza lasciare libero quello spazio”. Così provammo a suonare tutti insieme. Il clarinetto suonava la melodia un’ottava più sopra, mettendoci delle note veloci, ma sempre squittendo e scricchiolando. Terribile. Allora Barker disse: “Mettiamola su assieme, Li’l Liza Jane”. Era la cosa più cacofonica e disarticolata che si possa sentire in tutta una vita.
“Signori,” concluse entusiasticamente, “ecco, quello è il jazz.”
Se guardate alla scena jazz di New Orleans, molti dei suoi uomini migliori di oggi – Lucien Barbarin (trombone), Shannon Powell (batteria), Michael White (clarinetto), Gregg Stafford (cornetta), Herlin Riley (dapprima tromba, ora batteria) – hanno suonato con la Fairview Baptist Church Marching Band di Danny Barker nel corso degli anni. Significa che quel vecchio sentiva qualcosa in noi a quei tempi. E ci stava anche insegnando una cosa: voi siete creativi, chiunque siate. Riconoscete la vostra creatività e abbiate rispetto per la creatività e per gli spazi creativi degli altri.
Quella fu la prima delle molte lezioni di vita che ho imparato dal jazz. Oggigiorno sentiamo dire tante cose sulla musica jazz: è solo per intenditori, è troppo difficile da capire per la maggior parte della gente; non ha fondamenti né obiettivi identificabili; ha dato il meglio di sé nel passato, quando la suonavano in club fumosi e poco frequentati; e, da ultimo, che il jazz in quanto tale è già sul tavolo dell’obitorio, pronto per il cimitero.
Negli ultimi trent’anni ho fatto del mio meglio per dimostrare che queste osservazioni sono totalmente sbagliate. In questo libro spero di trasmettere il messaggio positivo della più grande musica d’America. Vorrei far capire come il reciproco rispetto e la fiducia che i migliori musicisti dimostrano sul palco possono cambiare la vostra visione del mondo e arricchire ogni aspetto della vostra vita – dalla creatività individuale alle relazioni interpersonali, al modo di condurre gli affari, alla comprensione di che cosa significhi essere un cittadino globale nel senso più moderno.
La maggior parte delle attività che richiedono il coinvolgimento del pubblico hanno i mezzi per fornire al neofita le nozioni necessarie per apprezzare ciò che sta succedendo: gli eventi sportivi hanno commentatori che interpretano le azioni; l’opera ha utili programmi di sala o sottotitoli; i musei forniscono audioguide. Nel jazz, anche per i musicisti, di solito funziona con “suona quello che senti”, “continua ad ascoltare attentamente e ci arriverai... un giorno”, o qualche altro consiglio criptico che non dice niente e serve solo a farti sentire un estraneo: “Se devi fare delle domande, non imparerai mai”. È uno dei motivi per cui l’estetica del jazz rimane un mistero per tanta gente, nonostante la storia dei suoi principali esponenti, da Louis Armstrong a Thelonious Monk fino a Marcus Roberts, dimostri che tutti condividevano i medesimi obiettivi artistici, che io cercherò via via di spiegare nella maniera più esauriente: swingare, suonare il blues, sincopare i materiali più disparati, comporre nuovi pezzi, l’improvvisazione interattiva e il virtuosismo più spontaneo – tutti mirati a interpretare i vari aspetti della vita moderna attraverso il linguaggio del jazz.
La mia intenzione è di correggere il modo di ascoltare il jazz, dimostrando che i concetti che stanno alla base di questa musica possono cambiarvi la vita. Vorrei aiutarvi a percepire la musica e a individuare le differenze tra i suoni e le personalità dei grandi musicisti: Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Miles Davis, Ornette Coleman, Charlie Parker, Jelly Roll Morton, John Lewis e altri ancora. Lancerò uno sguardo su ciò che passa per la mente dei musicisti in azione; cercherò di dimostrare la centralità del blues, di spiegare in che cosa l’improvvisazione jazz differisce da ogni altra forma di improvvisazione musicale, di esplorare la dialettica creativa tra l’espressione di sé e il sacrificio di sé nel jazz, una tensione che sta alla base dello swing, nella musica e nella vita.
Cammin facendo voglio trasmettervi alcune delle lezioni che ho appreso dalla musica nel corso degli anni. Lezioni sull’arte e sulla vita che spero vi aiuteranno a trovare – o a mantenere – il corretto equilibrio tra il diritto a esprimervi e a vedere le cose a modo vostro e i doveri che avete nei confronti delle idee e dei comportamenti degli altri quando lavorate insieme per un obiettivo comune. È quello che ci insegnò Danny Barker – a divertirci e a divertire gli altri. Grazie a questa musica spero ci riuscirete anche voi.
Wynton Marsalis