Timothy Radcliffe, O.P.
Chiamati ad irradiare gioia

 

[Esiste una profonda contraddizione tra sacerdozio a depressione. Sarebbe un controsenso proclamare il vangelo in uno stato di scoraggiamento. Perciò, diventeremo credibili annunciatori della "buona novella" soltanto se saremo ricolmi di gioia].

Pubblichiamo questo speciale in coincidenza con l'emanazione dell'istruzione Il presbitero pastore e guida della comunità parrocchiale, da parte della congregazione vaticana per il clero. Non per commentarla o presentarla, ma per trattare in parallelo di un aspetto che riguarda direttamente il prete diocesano, ossia il problema dello scoraggiamento che spesso insidia anche i migliori pastori d'anime di fronte all'apparente fallimento di ogni sforzo pastorale. Il testo che presentiamo riprende con qualche breve taglio una conferenza tenuta da P. Radcliffe, già maestro generale dei domenicani, in un incontro con i preti dell'Inghilterra e del Galles, organizzata di recente dal Consiglio della conferenza nazionale dei preti. Consapevole del rischio che corre oggi il prete, il padre ha invitato i presenti a riscoprire il senso della gioia cristiana, quale presupposto per dare un senso pieno alla propria azione pastorale. Sacerdozio e scoraggiamento sono una contraddizione in termini e una controtestimonianza del vangelo, ossia della buona notizia che si è chiamati ad annunciare.

L'intervento ci pare guanto mai pertinente anche per tutti i sacerdoti religiosi, e per quanti sono impegnati nella pastorale. Ma il problema riguarda anche le religiose che nella loro attività possono sperimentare uno stesso senso di frustrazione di fronte a risultati che sembrano spesso, almeno in apparenza, fallimentari, anche se in realtà non è così. Tutto sta nel saper guardare alle situazioni non con l'ottica umana, ma con quella del vangelo.

Quando ho incontrato il consiglio della Conferenza nazionale dei presbiteri per concordare il mio contributo alla conferenza, mi è stato detto che molti sacerdoti in Inghilterra e nel Galles si sentono depressi e demoralizzati. Personalmente non saprei quanto sia diffuso questo fenomeno; ma anche senza contare il numero dei sacerdoti attualmente depressi, ci sono molte buone ragioni per esserlo: la scarsità delle vocazioni, la mancanza di una chiara identità sacerdotale, la caduta di rispetto nei confronti della nostra vocazione, gli scandali degli abusi sessuali, la scomparsa dei giovani da molte parrocchie, il disaccordo con alcune posizioni della Chiesa e così via. Vorrei soffermarmi su alcune di queste situazioni, e nello stesso tempo chiedermi come possiamo affrontarle senza sentirci demoralizzati. È un problema serio dal momento che esiste una profonda contraddizione tra il sacerdozio e la depressione. Non è possibile annunciare il vangelo in uno stato di depressione. Sarebbe un controsenso. Noi possiamo essere dei credibili portatori della "buona novella" soltanto se fondamentalmente, anche se non proprio sempre, siamo ricolmi di gioia. Non sto parlando di quell'allegria chiassosa tipica di quanti vanno in giro dando pacche sulle spalle e invitando la gente a essere felice perché Gesù li ama. Questo tipo di atteggiamenti mi fa sentire profondamente depresso. Ho sempre odiato una canzone chiamata Don't Worry. Be Happy (Non angustiarti. Sii felice). Come può permettersi una persona di venirmi a dire di essere felice? Vorrei piuttosto parlare di una gioia profonda propria della nostra vocazione sacerdotale. Questa gioia è strettamente legata alla sofferenza e perfino alla collera. La nostra vocazione ci porta a condividere non solo la passione di Cristo, ma anche le sue passioni, le sue gioie, le sue sofferenze e persino le sue collere. Sono le passioni di quanti vivono intensamente il Vangelo. Vorrei perciò affrontare con voi alcune di queste situazioni che ci possono effettivamente deprimere, per vedere in che modo farvi fronte con sofferenza e gioia e persino con collera, anziché deprimerci o demoralizzarci.... Non credo sinceramente di essere la persona più adatta per parlare di queste cose. Ho trascorso gli ultimi dieci anni fuori dall'Inghilterra e perciò non posso dire di conoscere a fondo l'attuale realtà ecclesiale inglese. Inoltre sono un sacerdote religioso e per quanto ci troviamo di fronte alle stesse sfide, a volte noi le affrontiamo in modo diverso. Mi consolo comunque pensando a uno dei miei confratelli statunitensi che al termine di una sua conferenza ricevette degli applausi molto tiepidi. Si sedette a chiese al vicino: "E' andata poi così male?". Questi gli rispose: "Non preoccuparti; io non me la prendo con te; me la prendo con ti ha invitato a parlare"….

La perdita d'identità

Come tutti ben sappiamo, prima del concilio Vaticano II il sacerdote aveva una sua chiara identità. Era una persona sacra, un uomo del culto, con un suo status ben preciso e un conseguente rispetto dovuto alla sua consacrazione. Era stimato perché aveva il potere di consacrare il corpo e il sangue del Signore, anche se poi magari lasciava molto a desiderare come pastore e predicatore. Questa identità è stata messa in questione dal concilio. C'è stata la riscoperta del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio, della universale chiamata alla santità, del matrimonio come vocazione santa. Si è cominciato allora a vedere il sacerdozio soprattutto in termini di servizio e di leadership. Molti sacerdoti erano e sono entusiasti di questa nuova identità; in un certo senso essa ci ha liberato da un soffocante clericalismo e ci presenta un'identità più evangelica, più simile a quella del Cristo. Ma allora, qual è il problema? Come mai, a distanza di quarant'anni dal concilio, tanti sacerdoti si sentono oggi a disagio e confusi nella loro identità? Penso che i motivi siano sostanzialmente quattro.

1. L'idea del sacerdote servo e leader è molto bella, ma le parole tendono ad andare in due diverse direzioni. Se uno serve, di fatto poi si suppone che non comandi, come fa un autoritario maggiordomo. Mi ricordo di certi camerieri francesi che, con grande supponenza, tentavano in tutti i modi di far scegliere ai clienti il loro menù. Mi ricordo ancora di un vescovo irlandese che nel giorno della sua consacrazione episcopale annunciò di voler mettersi al servizio della sua diocesi con verga di ferro.

2. Nella teologia moderna l'immagine del sacerdote è spesso talmente idealizzata da riuscire irraggiungibile. Mentre mi preparavo a questa conferenza sono rimasto senza parole nel leggere che il sottoscritto sarebbe un brillante predicatore, un efficiente amministratore, un creativo genio liturgico, un paziente ascoltatore, uno stimolante leader, un guru spirituale, buono per i giovani e per i vecchi. Mi sono sentito profondamente demoralizzato; mi sono anzi convinto di essere un pessimo sacerdote che dovrebbe chiedere la laicizzazione. Quasi mi perdevate!

3. Tutta la teologia del "servizio" tende a sottolineare maggiormente ciò che il sacerdote deve fare anziché ciò che deve essere. Questo può facilmente portare a una visione utilitaristica del sacerdozio. Per essere un bravo sacerdote, uno dovrebbe lavorare in continuità e con efficienza; ma in questo mondo secolarizzato, con la costante diminuzione della pratica religiosa, ci sembra spesso di aver fatto ben poco e di aver accumulato tanti insuccessi.

4. Il concetto di ministero si è esteso enormemente. Negli USA l'80% delle persone che esercitano un ministero nella Chiesa sono laici, e l'80% di questi laici sono donne. Ne derivano due conseguenze. Anzitutto che il sacerdote si sente meno speciale. Vale la pena abbracciare il sacrificio del celibato e tanti stress per essere uno di questi ministri, mentre gran parte degli altri ministri possono godersi le gioie del matrimonio? Inoltre, il sacerdozio è oggetto di tante aggressioni da parte di coloro che se ne sentono esclusi, vale a dire uomini sposati e donne. Così il sacerdote rischia di sentirsi contemporaneamente deprezzato e invidiato, e questa è la peggiore delle situazioni. "Come osate escludermi da questo ruolo così importante che voi esercitate?".

È perciò comprensibile che alcuni sacerdoti, spesso giovani, sentano nostalgia dei "bei tempi passati", quando il sacerdote era percepito soprattutto come una persona del culto, felice delle sue mani consacrate. Altri sacerdoti invece temono ciò come un ritorno ad una visione elitaria del clero, apprezzano la teologia del "servizio", ma molti ammettono di sentirsi insicuri e di non sapere chi sono e che cosa significhi essere prete oggi.

Esiste una via d'uscita?

C'è una via d'uscita? Io credo di sì, e si può trovare nella Lettera agli Ebrei, l'unico documento neotestamentario che sviluppa una teologia del sacerdozio. Qui abbiamo una visione di Cristo sommo sacerdote, persona sacra che celebra un culto celeste. Ma la sua santità non lo separa affatto dagli altri, anzi lo unisce più intimamente a noi. Ci viene qui offerta una profonda visione del sacerdozio, che purtroppo non ho il tempo di sviluppare, che ci porta oltre la polarizzazione di coloro che vedono il sacerdote in termini di servizio e quanti invece sono nostalgici del sacerdote come persona sacra. La concezione veterotestamentaria della santità implicava la separazione del sacerdote da tutto ciò che era impuro e imperfetto. Il sommo sacerdote non poteva avvicinarsi a un cadavere. Ma nella Lettera agli Ebrei troviamo una visione della santità di cui è avvolto il suo capo. La santità di Cristo si mostra nell'accogliere tutto ciò che in noi sa di imperfezione peccaminosa. Questa santità non si esprime con la distanza ma con la vicinanza. Il momento culminante di questo suo sacro ministero fu quando egli abbracciò la morte, la più impura delle cose, e divenne lui stesso un cadavere. "Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta delta città. Usciamo dunque anche noi dall'accampamento e andiamo verso di lui, portando il suo obbrobrio" (Eb 13:12-13). I vangeli non parlano mai direttamente di Cristo come sacerdote, ma possiamo trovare in essi questa stessa teologia della santità. Egli abbraccia gli intoccabili, i lebbrosi; mangia e beve con i peccatori; è l'agnello sacrificale che muore sull'altare della croce. Così tutto il popolo di Dio è un popolo Santo e sacerdotale, poiché incarna l'abbraccio di Cristo di tutti noi nelle nostre vite disordinate, con tutte le debolezze e mancanze. La santità della Chiesa si manifesta nella sua apertura ai peccatori, non nella loro esclusione; James Joyce, parlando della Chiesa, l'ha definita il luogo dove "entra chiunque". Essa offre a noi ministri ordinati una visione del nostro sacerdozio, completamente libera dall'elitarismo clericale, e fondata sull'unione e identificazione con il popolo nelle sue lotte e nei suoi fallimenti. Consentitemi una confessione. Poco prima della mia ordinazione incominciai ad avere dei grossi dubbi proprio in riferimento alla mia chiamata al sacerdozio. Si era radicata in me una profonda avversione verso il clericalismo e ogni forma di superiorità sacerdotale. Temevo di essere ipocrita, dal momento che sapevo di non essere migliore di nessun altro. Ho accettato l'ordinazione esclusivamente in obbedienza ai miei fratelli. Potevo identificarmi con sant'Agostino che pianse quando fu ordinato sacerdote. I cinici pensavano che piangesse perché non era stato fatto vescovo, mentre in realtà era perché non desiderava essere ordinato sacerdote. Dopo la mia ordinazione vidi con terrore il parroco della mia parrocchia d'origine venire verso di me. Soltanto due anni prima, preoccupato della mia salvezza, mi aveva perentoriamente ingiunto di lasciare "quegli eretici domenicani", se volevo salvare l'anima. Quel giorno invece mi si buttò ai piedi chiedendomi di benedirlo con le mie mani consacrate. Corsi a rifugiarmi nella mia camera per trovare un po' di calma; ma tornai indietro dopo che uno dei miei confratelli tedeschi mi aveva seguito al piano superiore tentando di parlarmi di Heidegger! Era la cosa peggiore che mi potesse capitare!

Quel funerale a Westminster

Finalmente cominciai ad amare il mio sacerdozio in confessionale. È stato qui che ho scoperto che l'ordinazione ci pone a contatto con le persone proprio nel momento in cui esse si sentono il più lontano possibile da Dio. Noi siamo uno di loro, siamo al loro fianco, nel momento in cui guardiamo insieme la fragilità umana, le mancanze e i peccati, i nostri e i loro. Ciò che preoccupa nel clericalismo non è tanto che esso fa del prete una persona sacra, quanto piuttosto la concezione che ha del sacro, che è derivata dall'Antico Testamento anziché dal Vangelo. Una delle circostanze più sacre alle quali io abbia mai preso parte è stato il funerale di un certo Benedetto, circa venticinque anni fa. Gli avevo amministrato l'olio degli infermi poco prima che morisse di Aids, e la sua ultima richiesta fu che gli celebrassi il funerale nella cattedrale di Westminster. Questa richiesta comportò ovviamente non poche trattative. Durante i funerali, la bara fu posta al centro della cattedrale, con attorno i suoi amici, molti dei quali anch'essi ammalati di Aids. In questo centro simbolico della vita cattolica dell'Inghilterra c'era il corpo di uno dei più grandi esclusi della società odierna, un ammalato di Aids, gay e morto. In questo momento possiamo vedere l'epifania della radiosa santità di Dio. Questa visione del sacerdozio è essenzialmente missionaria, rivolta al di fuori. Ciò significa che il servizio della comunità cristiana non può essere il ministero dei preti con l'esclusione di tutti gli altri ministri. Per quanto grande sia la carenza di sacerdoti, la diocesi deve tentare di renderne disponibili alcuni per altri impegni esterni, in modo che quanti non avvicineranno mai la Chiesa possano essere raggiunti e accolti. E se il proprio ministero è quello parrocchiale allora bisogna che la parrocchia sia in certo senso missionaria, rivolta all'esterno. La santità del sacerdozio non comporta necessariamente una superiorità morale rispetto agli altri. È l'opposto dell'elitarismo. Ciò implica una certa dislocazione sociale del sacerdote ordinato. Noi non abbiamo un posto chiaro nella gerarchia sociale. Siamo persone sfuggevoli che si trovano a loro agio sia con i principi sia con gli spazzini. Dobbiamo incarnare un'inclusione che può non essere del tutto comprensibile alla nostra società, ed essere disponibili a tutti, al di là di ogni inclusione ed esclusione. Ero studente a Parigi quando il cardinal Danielou morì sulle scale mentre si recava a visitare una prostituta. La stampa si lanciò in tutte le possibili insinuazioni. Ma, per quanto ne sapessi, egli era un sant'uomo e un bravo sacerdote. Per certi versi, quello è stato il luogo ideale per la morte di un cardinale. Può andare ancora bene se ci vestiamo in modo alquanto strano, e a volte indossiamo persino vesti che altre persone hanno smesso di portare almeno cinquecento anni fa. Ciò può far pensare che ci mettiamo in contrasto con le strutture ordinarie. Mi viene in mente un mio confratello americano al cui nome, come nel caso di tanti americani irlandesi, era stato aggiunto anche quello di Maria. Questi si era messo a criticare, nella sala comune, le persone che sarebbero state ordinate sacerdoti in quei giorni, a suo parere tutte eccentriche, omosessuali e Dio sa cos'altro. Uno dei confratelli presenti gli disse: "Ascolta un po'; tu ti chiami Maria e porti anche una tonaca; ti sembra di essere una persona proprio così normale?".

Sacerdote per gli altri

Sto dicendo che il sacerdote è chiamato a rappresentare Dio nella sua vita ed essere un suo prolungamento verso l'intera umanità dispersa. Questo ci porta oltre la dicotomia di coloro che vedono il sacerdozio in termini dell'essere e quelli che lo vedono soltanto sul versante del fare. Tutto ciò che noi come sacerdoti ordinati siamo chiamati a fare è di esprimere e incarnare la santità di Dio vivendo in Cristo, trasformando i lontani in vicini, la morte in vita, la sofferenza in gioia. Come deve vivere la sua vocazione un sacerdote oggi, specialmente di fronte alla crisi della Chiesa e della società? La mia impressione è che la spiritualità del sacerdote diocesano è profondamente radicata nella vita dei laici. Il vescovo statunitense Untenor ha scritto che il sacerdote diocesano "appartiene alla comunità dei discepoli di Gesù Cristo. In quanto sacerdoti, condividiamo le stesse lotte dei laici, viviamo nello stesso loro mondo". Si tratta, nel senso più profondo, di una spiritualità laicale, di una spiritualità con e per il laos, la gente. Io sono cresciuto pensando che il prete di prima classe fosse un membro di un ordine religioso. Mi sembrava che ci fosse un po' di contrasto tra il termine "secolare" e la parola "sacerdote" come se il sacerdote secolare non fosse sacerdote dello stesso grado. Se accettiamo la teologia della Lettera agli Ebrei, allora il sacerdozio non è altro che l'accoglienza da parte di Dio di tutto ciò che è secolare, di tutto ciò che è laico. Il nostro "sommo sacerdote", infatti, era un laico. Essere sacerdote "secolare" esprime ciò che è al cuore di ogni sacerdozio. Forse siamo noi religiosi le persone strane a cui è necessario spiegare il loro sacerdozio. È un po' tardi per me scoprirlo dopo trent'anni di vita come prete domenicano. Se questa spiritualità è soprattutto inserita nella vita dei laici, allora è proprio qui che il sacerdote secolare spesso anche quello religioso — trova la sua più grande gioia, ma anche la più profonda sofferenza e persino lo scoraggiamento.

La vera leadership del sacerdote

Vorrei ora soffermarmi brevemente su tre aspetti particolarmente importanti: le difficoltà proprie della leadership, il frequente insuccesso delle parrocchie nell'essere comunità, così come noi le vorremmo, e infine la sofferenza di vivere il nostro sacerdozio così vicino a tanti fallimenti e a tante tragedie. Gran parte della letteratura teologica odierna è dedicata al tema del sacerdote in quanto leader. Devo confessare di trovarmi a disagio a questo riguardo. Perché? Anzitutto perché, come ho detto prima, si coniuga molto male con l'idea di servizio. Come può uno sentirsi un servitore e insieme un leader del popolo di Dio? Questa tensione può facilmente confondere il nostro rapporto con coloro con i quali collaboriamo. Questi infatti sono affascinati dall'idea che il sacerdote è qui per servire e possono rimanere un po' sorpresi che ciò consista normalmente nel dire loro quello che devono fare! Più radicalmente ancora, la parola leader mi richiama il mondo degli affari. Dal leader ci si aspetta che sia competente e risoluto, una persona che non mostra debolezza o esitazione, e capace di prendere decisioni coraggiose. Soprattutto la leadership è spesso valutata in termini di successo e di risultato, di raggiungimento degli obiettivi. Ma il sacerdozio non è fatto per il successo e il risultato. Spesso ci accorgiamo di non aver realizzato granché. Se pensiamo a noi stessi come a dei leader, allora ci accorgiamo del nostro fallimento. La nostra gente, quella che spesso vive e lavora nel mondo degli affari, se ha la fortuna di avere un impiego, non viene da noi sperando di trovare in parrocchia gli stessi valori che trova in ufficio. Eppure il termine è diventato molto popolare nella Chiesa, e spesso anche nella vita religiosa. Tutte le volte che mi chiedono quanto tempo ho esercitato la leadership, sono solito rispondere: "Mai fino ad oggi". Ma è la Lettera agli Ebrei ad offrirci una visione della leadership sacerdotale, nel senso che ci presenta un modo di essere in relazione con gli altri, che non è né di dominio né di fallimento. Gesù è modello della nostra fede, "per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo" (10:20). Lui cammina davanti a noi alla presenza di Dio. Gesù guida precedendoci, facendo il primo passo. La nostra leadership si manifesta nell'essere persone disposte a fare il primo passo: nel raggiungere gli esclusi e gli emarginati, offrendo e chiedendo perdono. Nella parabola del figlio prodigo, la riconciliazione avviene perché ambedue, il figlio minore e il padre, compiono il primo passo in due differenti direzioni. Il figlio fa il primo passo del ritorno a casa e il padre, quando lo vede ancora lontano, fa il primo passo per andargli incontro. Il Papa ci ha concretamente mostrato ciò che questo significa andando incontro agli ortodossi, agli ebrei e ai musulmani, col rischio anche di un rifiuto. Ha compiuto il primo passo chiedendo perdono per i peccati della Chiesa, nonostante un'opposizione in Vaticano. Questa è leadership. Allo stesso modo, per noi essere leader non significa essere competenti in tutto, persone di decisione in grado di dire a chiunque altro ciò che deve fare. Significa piuttosto compiere il primo passo davanti alla gente, accogliere quelli che forse non ci vogliono, invitare le persone a fare molto di più di quello che hanno sempre ritenuto possibile, perdonare e chiedere perdono. Questo può farci sentire soli. La vera leadership, in questo senso, può condurci fino alla solitudine della croce. Forse, nell'ethos universale del mercato, la nostra leadership puòconsistere anche nel lasciar cadere la maschera della competenza, nel far fronte ai nostri limiti e ai nostri fallimenti e non esserne preoccupati. Possiamo continuare a guardare in faccia la nostra fragilità senza paura. Leadership, soprattutto, significa compiere il primo passo dentro la vulnerabilità. La vera leadership ci dà la gioia profonda e la libertà di lasciar cadere le pesanti maschere dell'essere riconosciuti, di apparire uomini forti the avrebbero raggiunto grandi successi, se il Signore li avesse chiamati alla British Petroleum anziché al sacerdozio.

Comunità o stazioni di servizio?

Un'altra area nella quale possiamo facilmente incontrare l'insuccesso e lo scoraggiamento è quella delta creazione della comunità parrocchiale. Le parrocchie non sono sempre quelle belle comunità di cui leggiamo nei libri di teologia. Incontrando il consiglio della Conferenza nazionale dei sacerdoti, un sacerdote mi espresse la sua frustrazione perché troppo spesso la parrocchia era vista più come una stazione di servizio che non come una genuina comunità. La gente, diceva, si accontenta di una capatina in chiesa per una messa fugace anziché riunirsi attorno all'altare come popolo di Dio. Il gruppo liturgico parrocchiale cerca di preparare una festa copiosa, ma molte persone si accontentano di un piccolo rinfresco prima di ritornare a casa per la vera celebrazione del pranzo domenicale. Tutto questo non sorprende. Nella città moderna il territorio parrocchiale è tracciato prescindendo da qualsiasi senso naturale della comunità. Il sacerdote considera la parrocchia come la sua principale comunità, ma per molta gente, invece, essa occupa uno degli ultimi posti nella lista dei luoghi di appartenenza, dopo le loro case, i club calcistici, le scuole dei loro figli e i posti di lavoro. Tutto questo può insinuare nel sacerdote l'idea del fallimento, di non essere riuscito a radunare la gente attorno all'altare e di costruire una comunità eucaristica. Non è mio compito guardare al futuro della parrocchia territoriale e proporre eventuali alternative; mi limito qui ad esprimere un semplice punto di vista, ossia che qualsiasi comunità che cerchiamo di formare spesso è destinata in certo senso al fallimento perché il regno di Dio non è ancora venuto. Ogni comunità cristiana, sia che si tratti di una parrocchia, di un priorato dei domenicani o della "Legio Mariae", è un simbolo difettoso e incrinato della comunità a cui aspiriamo, quella del Regno. Se una parrocchia avesse troppo successo potremmo commettere l'errore di pensare che il Regno è arrivato e di scambiare il parroco col Messia.

La comunità "fallimentare" dell'ultima cena

La riunione archetipa della comunità cristiana è stata l'ultima cena. E penso al grande fallimento che fu quella comunità: uno dei discepoli ha venduto Gesù, un altro lo ha rinnegato e tutti i restanti sono fuggiti. Gesù non è riuscito a riunire i suoi discepoli in una comunità quell'ultima notte, perciò non dobbiamo essere sorpresi se non riusciamo a fare meglio di lui. Gesù ha voluto offrirci il Sacramento della comunità, il segno del Regno che doveva venire come dono nel tempo opportuno. Se la parrocchia non è una comunità grande e dinamica, ciò non è affatto segno del nostro personale fallimento. A volte non possiamo fare nulla di più che porre dei segni di ciò che ha da venire. Quando ero giovane studente domenicano a Oxford, andai nella cappellania a trovare Michael Hollings. Purtroppo questi mi mandò via con una ramanzina perché non amava i religiosi. Anni dopo imparai a conoscerlo a ad apprezzarlo. Dovunque andava teneva la sua casa aperta, a Oxford, Southall e Bayswater. Una volta colse un ladro intento a rubare; lo invitò a rimanere con lui per il tè. Sapevo benissimo che non sarei mai stato capace di affrontare un tal genere di vita, ma ho ammirato ciò come un segno del Regno. Certamente non era il Regno, almeno io spero, ma era un segno di quel Regno che è aperto a tutti. Noi non possiamo costruire da noi stessi questa comunità, ma solo porre qualche gesto che lo indica. Esso verrà come un dono e una sorpresa. Nel marzo scorso ero al Cairo e ho voluto visitare quella parte della città che i turisti raramente vedono, Mukatan. E la città dei raccoglitori di immondizie. In quel luogo vivono almeno 300.000 persone, in gran parte cristiani. Costoro ogni mattina vanno a raccogliere le immondizie della città e le portano a Mukatan dove le assortiscono per cercare quello che è possibile rivendere o riciclare. È il posto più sporco, puzzolente e deprimente che io abbia mai visto. Le persone sembrano mezze morte; anche i bambini che giocano a pallone in quelle strade sembrano quasi in letargo, come dei vecchi. A ridosso di questo orribile posto ci sono alcune rocce. Un artista polacco ha trascorso quasi tutta la sua vita a ricoprirle con immagini di Cristo glorioso. Quando i raccoglitori di immondizie ritornano a casa con i loro carretti ricolmi di carichi puzzolenti, possono ammirare su quelle rocce la trasfigurazione, la risurrezione e l'ascensione di Cristo. Le immagini proclamano che essi non sono raccoglitori di immondizie ma cittadini del Regno, destinati alla gloria futura. Essi si tengono vivi con dei segni. Questo è ciò che noi possiamo offrire.

Viaggio nell'anno liturgico

Il sacerdote è il portatore della buona notizia. Questo è il motivo per cui lo scoraggiamento mina in profondità la nostra vocazione. Nessuno ci crederà se abbiamo l'aspetto di persone depresse. Il ruolo del sacerdote è spesso quello di portare questa buona notizia proprio alla gente la cui vita è toccata dalla disperazione e dai fallimenti. Tony Philpot ha scritto che "il sacerdote diocesano ha a che fare, ex professo, con i fallimenti. In essi c'è evidentemente il suo stesso fallimento, la consapevolezza del suo peccato. Ma c'è anche il fatto che il vangelo è soprattutto perdono dei peccati, e la vocazione del sacerdote è quella di avere a che fare con i peccati del suo gregge.... Il fallimento è il materiale grezzo sul quale egli lavora". Nella nostra società siamo anche confrontati con tutti i mali e le sofferenze della società nella quale il crollo delle strutture sociali e la secolarizzazione significano per molta gente la perdita del senso della loro vita. Come possiamo continuare a essere dei gioiosi portatori di liete notizie quando attorno a noi vediamo così frequentemente famiglie rovinate, giovani smarriti e drogati e insieme il trionfo di una cultura della banalità? Evidentemente il primo modo per poterlo essere è con la celebrazione dell'anno liturgico Si tratta di una storia intessuta di sofferenze, di fallimenti, di umiliazioni, di peccati, di esilio ma che nello stesso tempo ci proietta oltre, verso il Regno. Ogni anno siamo liberati dall'Egitto e ci incamminiamo verso la Terra promessa. Cominciamo con l'Avvento e andiamo verso il Natale, e dalla quaresima verso la Pasqua, la Pentecoste fino alla festa di Cristo Re. Riviviamo la demoralizzazione degli israeliti nel deserto, e dei loro discendenti in esilio a Babilonia, e siamo condotti oltre. Gesù dice ai discepoli durante l'ultima cena: "Voi ora siete nella tristezza, ma io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (Gv 16:22). Noi riviviamo ogni anno una storia che trasforma la sofferenza in gioia.

Ma questa non è una risposta sufficiente. Nonostante le celebrazioni dell'anno liturgico alcuni sacerdoti si sentono ancora depressi e demoralizzati. Questa realtà annualmente rivissuta ci conduce verso la Terra promessa, ma quando stiamo per entrarvi e riposarci, bisogna cominciare tutto di nuovo. L'anno liturgico sembra perciò una specie di gioco dell'oca liturgico: giungiamo fino alla festa di Cristo Re e poi, oplà, scivoliamo giù di nuovo per cominciare tutto daccapo. In questa ripetizione senza sosta, qualche bagliore della fine della giornata deve apparire anche ora. Anche adesso dobbiamo assaporare la gioia e la pace del Regno.

Dobbiamo vivere ora in modo tale che il popolo di Dio colga qualche cenno della fine del viaggio. Non possiamo aspettare fino alla morte per diventare vivi. Diversamente, perché mai la gente dovrebbe credere che siamo in viaggio verso una meta?

Perciò credo che se il sacerdote vuole essere un portatore di buone notizie, allora bisogna che viviamo uno stile di vita in cui già ora irrompe l'eternità. Non è sufficiente sopravvivere. Dobbiamo fiorire. Ciascuno di noi ha bisogno di un genere di vita che realmente ci offra vita, di vivere pregustando la vita eterna. In caso contrario saremo sopraffatti dalle sofferenze del nostro tempo, oppure soccomberemo alla sua cultura della banalità. II nome primitivo della vita cristiana era "la via". Dobbiamo mostrare the è una via verso una meta e non un girare intorno nel deserto.

La leadership del cardinale Bernardin

Il grosso problema è di sapere come un sacerdote possa vivere questa via della vita. Alcuni sacerdoti diocesani mi hanno detto che è facile per noi religiosi parlare di una via della vita, specialmente quando non si hanno responsabilità parrocchiali. Noi religiosi infatti abbiamo una regola da seguire; viviamo in comunità; e abbiamo un maggior controllo sulla nostra esistenza rispetto ai sacerdoti diocesani, i quali sono sempre a disposizione dei loro parrocchiani e impossibilitati a prevedere tutte le peripezie della loro giornata. Altri sacerdoti negano tutto questo e dicono che il anche il sacerdote diocesano può e deve organizzare il suo tempo in modo da poter pregare, rilassarsi e riprendere energie. Altri ancora dicono che questo sarebbe possibile se il vescovo sapesse far fronte alla crisi della mancanza di sacerdoti e stringesse un po' i denti. Vorrei chiedervi di riflettere su come potete impostare la vostra vita sacerdotale in modo tale che già fin d'ora la gente possa intravedere in voi i primi frutti della nuova creazione: libertà, pace e gioia. Sono convinto che tutto questo è possibile. Anche voi, come Gesù, siete consegnati nelle mani degli uomini e delle donne. Come Gesù avete preso l'enorme rischio di donarvi liberamente alla gente. Quando il cardinal Bernardin fu consacrato arcivescovo di Chicago, disse ai suoi fedeli: "Per tutti gli anni che mi saranno concessi, io darò me stesso a voi. Offro il mio servizio e la mia leadership, le mie energie, i miei doni, la mia mente, il mio cuore, le mie forze e, sì, anche i miei limiti. Mi offro a voi nella fede, nella speranza, nell'amore". Questo è veramente un dono eucaristico di sé: "Questo è il mio corpo, dato per voi". E tuttavia Gesù rimase la persona più libera che mai sia esistita, proprio nella sua pima obbedienza al Padre. Ha consegnato volontariamente se stesso nelle nostre mani e tuttavia non è stato mai un passivo burattino. Ha impostato la sua vita proprio come ha fatto il cardinal Bernardin. Quando questi era giovane vescovo si era reso cthe la sua vita era interamente consumata nell'inseguire gli avvenimenti, o dal disbrigo degli affari. Aveva quindi avvertito l'esigenza di ritagliarsi uno stile di vita che includesse la preghiera e lo studio. Come possiamo anche noi trovare quella libertà eucaristica sì da poter donare la nostra vita e nello stesso tempo vivere uno stile di vita in cui la luce del Regno possa essere intravista? È un interrogativo che pongo a ciascuno di voi. Abbiamo bisogno di un ritmo di vita che ci permetta momenti di riposo, di riposare con Dio e anche con noi stessi. Abbiamo bisogno di momenti in cui poter scomparire e non fare niente, settimanalmente, mensilmente o annualmente. E questo, in primo luogo, non perché una volta riposati saremo più efficienti ed efficaci, per quanto sia grande il problema del burnout. Si tratta di qualcosa di più della buona amministrazione. La ragione è che la buona novella che predichiamo consiste nell'annunciare che tutti gli esseri umani sono chiamati a riposare in Dio e a condividere con lui il suo sabato. Questo è il vangelo: il fatto che siamo tutti cittadini del Regno nel quale un giorno soggiorneremo e dove consumeremo il nostro tempo con Dio per tutta l'eternità. La più grande dignità degli esseri umani è di essere chiamati a "giocare" con Dio per l'eternità, homo ludens. Chi mai ci crederà se non ci hanno mai visto riposare ora? Molti di noi sono costrittivamente occupati e come tali vogliono essere visti. Io sono uno di questi. Se vogliamo essere predicatori credibili non dobbiamo avere paura di farci vedere, a volte, un po' pigri. Dovremmo avere il coraggio di esporre sulle porte della nostra chiesa un avviso che dice: "Niente messa per i prossimi tre giorni. Sono in vacanza". Dobbiamo resistere alla diabolica voce interiore che ci accusa di essere dei cattivi preti. Io ammetto di essere veramente manchevole in questo. Infatti ho trascorso gran parte del mio tempo sabbatico in occupazioni e soprattutto assicurandomi che gli altri mi vedessero occupato. Qualche volta mi diverto con dei giochetti al computer; ma sono talmente abile nel cambiare la schermata che se sento arrivare qualcuno immediatamente vi faccio comparire la mia omelia della domenica. Ma questo è il modo di agire di uno che, come me, sta solo cominciando a credere nel vangelo di grazia che predico. Ricordo quando il maestro del nostro ordine fece una visita ai domenicani, a Oxford, una ventina d'anni fa. Volevamo essere sicuri che avesse l'impressione che noi eravamo dei frati fortemente impegnati, per il fatto che le nostre vite erano piene di buone opere. Quando o incontrammo al termine della visita, ci attendevamo compiaciuti una bella lode. Invece nient'affatto. Disse: "La mia unica osservazione è che tutti voi lavorate troppo. Non credete forse nella grazia? Non dovete salvare il mondo" . Era troppo tardi per dirgli che noi veramente non lavoravamo così tanto, ma che volevamo solo dargliene l'impressione.

Trasmettere la gioia del Regno

Infine, la gioia del Regno.... Fa parte della nostra vita sacerdotale gioire della vita stessa della gente, dei loro incerti tentativi di vivere e di amare, siano essi sposati o divorziati o singoli, siano persone per bene o gay, che vivano o no secondo gli insegnamenti della Chiesa. La santità del sacerdozio deve irradiare questa gioia. La Chiesa dovrebbe essere una comunità nella quale la gente possa scoprire la gioia di Dio nei loro riguardi. Questo è il nostro ministero. E il nostro sacerdozio dovrebbe fare di noo delle persone appassionate, appassionate della nostra gioia e appassionate della nostra sofferenza, della sofferenza della gente o della loro rabbia dovuta all'oppressione. Se troveremo gioia nella gente allora la gente troverà gioia in noi. Dobbiamo scoprire la gioia di Dio in noi, una gioia offerta spesso anche dalle persone più inattese, che forse non hanno mai creduto in lui. Se la gioia sta realmente al cuore del nostro sacerdozio, allora ci preoccuperemo della felicità degli uni per gli altri. La felicità dei sacerdoti dovrebbe costituire la prima preoccupazione dei vescovi e del presbiterio diocesano. Se ci accorgiamo che un sacerdote è triste, non è giusto pensare che debba arrangiarsi da solo. Se noi stessi siamo immersi nella tristezza, non possiamo fare affidamento su una specie di individualismo da uomini forti per venirne fuori. La gioia del sacerdote non è solo un suo problema privato nel senso che è parte intrinseca della sua predicazione del vangelo e la manifestazione della santità di Dio. Dobbiamo sforzarci di cercarla gli uni per gli altri. Dobbiamo avere a cuore la felicità degli uni per gli altri.

Ref.: Testimoni (Centro Editoriale Dehoniano), n. 18, 31 ottobre 2002, pp. 22-29.