Non capivo all'inizio della mia professione, trovandomi di fronte ai sequestri di persona, conosciuti da giudice, in colle­gio penale, dovendo insomma decidere le colpe e le pene. Non capivo quella sopraffazione. Non capivo come si potesse arri­vare a privare della libertà, a escludere dagli affetti, dalle altre persone, a umiliare qualcuno per avere denaro, per tanto che fosse.

Nelle campagne intorno Milano ho visto le celle attrezza­te per segregare eventuali ostaggi. Loculi angusti, cunicoli di nudo cemento, corridoi di tre metri per niente, scavati sotto terra, nei quali è impossibile ergersi in piedi, che hanno co­stituito per mesi l'intero universo dei segregati. E se non ba­stasse, la psiche di questi sottoposta a continue torture, per ottenerne la soggezione completa. E non capivo il comporta­mento normale dei carcerieri, nel vivere la vita di tutti i gior­ni come se nulla esistesse. Alzarsi, accudire le vacche, lavora­re nei campi, tornare, pranzare, uscire di nuovo, tornare, ce­nare, badare ai bambini, coricarsi con le proprie consorti, e come intermezzo aprire una botola, calarsi in un buco profondo, bussare a una porta, imporre all'ostaggio di impe­dirsi la vista, porgergli il pranzo, richiudere la porta, tornare al livello del suolo, e chiudere la botola, celarla agli sguardi in­discreti, e poi continuare la vita normale, proprio come se nulla d'altro esistesse. E anche al processo, normali, senza al­cuna vergogna, senza un ripensamento, un gesto di scusa.

Non capivo più tardi, da giudice istruttore, gli intrighi e gli inganni, l'occulto, i ricatti di cui si nutriva la loggia P2. Non capivo la bramosia, il compromesso, lo scavalcare qualunque valore, qualunque rispetto di sé e degli altri, pur di ottenere, e poi mantenere, denaro e potere.

E ancora non capivo Sindona, gli allettamenti prima, le minacce, gli attentati e infine la morte, l'omicidio gratuito, per conservare cose già perse. Non capivo la protervia e l'arroganza di chi si appropria­va delle cose di tutti, gestendo, nell'IRI, patrimoni immensi. E non capivo la vendita sistematica della propria funzione, e della funzione degli altri, da parte dei dipendenti pubblici e dei politici che mercificavano in massa ogni bene, ogni valo­re, per avere denaro, per avere più potere all'interno del pro­prio partito, per avere e dimostrare potere sugli altri.

Non capivo i comportamenti ambigui di vari colleghi, che parevano non accorgersi, non vedere, non comprendere, non collegare, non dedurre, non essere curiosi, non interessarsi, non avere stimoli nella ricerca, e concludevano sminuendo, minimizzando, sorvolando, archiviando.

Dietro a tutti il potere, la voglia, la fame di denaro e insie­me di potere. -O il desiderio di compiacere il potere, come in un anelito a esserne contagiati.

Non capivo. Non so se adesso ho capito davvero, mettendo in relazione il potere e la morte.

Il senso di fine che si respirava nelle buie e nebbiose sera­te autunnali, a Renate, anticipazione delle angosce d'adulto; la percezione di essere finiti, del destino di dovere morire; la disperazione, 1'impulso di voler fuggire la morte; l'immagina­zione; e la nostra parte selvaggia rifiuta, cerca una strada per negare la morte.

La morte è annunciata in ogni vivente, ciascuno la vede, come anticipazione della propria sorte, in ogni essere umano, ed è consapevole della sua ineluttabilità.

Non è possibile imbrogliarsi, mentirsi quanto al destino degli altri. Per quanto si ricorra alla fantasia e all'immaginario, non si può eludere, non si può nascondere una circostan­za che viene confermata ogni giorno dall'informazione, dalla perdita di amici, dal venir meno delle persone più vicine e più care. Ma per la morte propria è diverso, non avendola mai sperimentata.

L'irrazionale si divincola dall'esperienza degli altri. Quasi inconsapevolmente partorisce un'inesistente via di salvezza. Respinge la constatazione più semplice, che le_persone che ci circondano muoiono tutte. E si chiede e se gli toccherà lo stes­so destino. Qui si insinua l'assurdo: ma io, io sono proprio uguale agli altri?

Se si riconosce la nostra uguaglianza,_non c'è via di scam­po. Ma per quanto la si voglia disperatamente negare, non si riesce a mentirsi fino a quel punto. L'esperienza obbliga a ritenere che tale destino è comune a tutti.

Subdolamente, qui si insinua il potere._l’unica speranza di salvezza si fonda su disconoscere quell’uguaglianza: chi può di più, chi ha più potere, è diverso dagli altri tanto più se può condizionarli, comandarli, soggiogarli:.Diventa evidente, ma­nifesto: può quello che gli altri non possono.

Tanto maggiore è i potere, tanto più grande è i1 distacco, la differenza. Chi può determinare il destino degli altri, men­tre questi non possono determinare il suo, appare a se stesso diverso. Il potere avvicina alla condizione di Dio, fa più simi­li a lui, che determina il destino degli uomini, a Dio che è im­mortale. La corsa al potere è la corsa verso l'illusione di esse­re immortali.

Ma quale potere? Il potere derivante da una carica, tem­poraneo, che passa, che si trasferisce ad altri ciclicamente, il potere governato da regole, sottoposto a controlli, i quali in qualsiasi momento possano evidenziare gli abusi, le distor­sioni e gli eccessi, insomma, il potere legale di un moderno stato di diritto?

No. Quel potere non rende sufficientemente diversi. La differenza sta proprio nella possibilità di fare quello che gli al­tri non possono, nel non essere sottoposti a controlli: nell'uso arbitrario di tale potere; nel rifiutare di essere sottoposti alle regole.

Alla fine, a render diversi è l'arbitrio, meglio ancora se am­messo e consentito da chi lo subisce. Proprio lì è il trucco! Che gli altri vedano, capiscano, e condividano quell'esser diversi. Perché se esiste anche per gli altri, allora la differenza è vera, e diverse potranno essere anche le conseguenze del proprio essere umani. L'affannosa ricerca del potere si identifica con 1'ultima, la più grande ribellione alla condizione dell’uomo, la più ottusa.

Poco importa delle esperienze degli altri potenti, nei confronti dei quali ha sempre vinto la morte.

Di tutti coloro che sono passati, stravolgendo il destino di popoli, clamorosamente causando inutili guerre, generando inevitabili odi, indirizzando in cunicoli chiusi, in destini senza strade di uscita; di coloro che hanno subdolamente tramato, mistificato, tessuto pazientemente una tela per coprire con il falso il vero, per mo­dificare la realtà, per scambiare le parti tra gli interpreti della vita e far apparire giustificato il sopruso.

Questo gioco, infatti, non ha alcun rapporto con la realtà. Serve a ingannare se stessi, a fuggire dall'essere umani: troppo pesante è la consapevolezza di essere finiti, e il senso di vuoto che ne consegue_va.riemp.ito perfino con il ricorso a impossibili giochi di prestigio che la mente svelerebbe in un solo secondo.

Ma anche la mente alimenta l'inganno. Anzi, fornisce alla selvaggia ribellione contro l'essere umano gli strumenti e i pretesti, e diffonde l'impalpabile nebbia necessaria a celare l'assurdo.

Com'è facile tentare la strada della propria diversificazio­ne, della separazione dagli  altri! Quante volte si cerca di riem­pire ogni possibile spazio lasciato vuoto da chi ci circonda, e di strappare gli spazi che costoro già hanno occupato, per riempirli d'arbitrio. L'illusione non è riservata a pochi. seduce chiunque non intenda resistervi,_diviene matrice comune del­le possibili ricerche di sopraffazione e privilegio in qualun­que contesto, a qualunque _livello. E separa, allontana dal ge­nere umano. L’arroganza completa, verifica, testimonia lo spessore della separazione

Tuttavia, alla fine, si è nudi. L’inconsistenza, la fragilità, la solitudine appresa nell'affacciarsi al mondo dei grandi, esisto­no ancora, sotto l'anestesia del potere. E si muore lo stesso.

Gherardo Colombo