L'UMANITA’ DELLA FEDE - Fede che umanizza, fede da umanizzare

Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui  parla delle cose terrestri

che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell'amore di Dio. (Simon Weil)

L'incarnazione

 «Il Verbo si fece carne e abitò tra di noi” (Gv 1,14):1'evento della condiscendenza di Dio, che porta il Creatore a farsi creatura, è al cuore del paradosso della fede cristiana. Ma che significa affermare che la parola si è fatta carne? “Farsi carne” non significa rivestire un corpo come un abito, assumere un involucro carnale, ma significa il farsi umano di Dio, indica che Dio, secondo la rivelazione cristiana, si fa conoscere all'uomo e lo incontra nell'umanità di Gesù Cristo. Scrive Ippolito di Roma: «Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo, della nostra stessa pasta (uomo come noi siamo uomini!)». Dio ha assunto tutto l'uomo vivendo una vita umana dalla nascita fino alla morte; si può dunque affermare che in Gesù, il Figlio, Dio ha vissuto l'esperienza umana “dal di dentro” dell'umanità stessa, oppure che Dio ha fatto avvenire in se la differenza umana, 1'alterità dell'uomo. Ormai noi cristiani possiamo dire che l'umano è il luogo di Dio, il “dove” di Dio: infatti, il farsi umano di Dio – la enanthropesis culmine della comunicazione di Dio all'uomo, dell'incontro Dio-uomo.

La seguente riflessione vuole scandagliare alcune conseguenze the tutto questo ha per la fede e la vita del cristiano. E lo fa seguendo due direttrici: la fede come fattore di umanizzazione dell'uomo; aspetti della vita di fede che occorre umanizzare.

 Fede che umanizza

 Dio si è fatto uomo perché  l'uomo diventi Dio: la divinizzazione dell'uomo

Scrive Atanasio di Alessandria: «Dio si e fatto uomo perche l'uomo diventi Dio”. Questa affermazione va intesa correttamente, non certamente nel senso che l'uomo sia chiamato a diventare Dio per natura, ontologicamente. I padri ragionavano in categorie personali, e cosi theosis, divinizzazione, indica una comunione e un incontro personali. Vladimir Lossky interpreta 1'espressione di Atanasio, che può essere considerata «il cuore della spiritualità ortodossa”, lo scopo della teologia e la finalità della vita in Cristo secondo i padri, mediante la categoria della partecipazione, e la definisce come «partecipazione alla vita divina della santa Trinità, possedendo per grazia tutto ciò che èssa possiede per natura».

Insomma, i padri non intendevano certo dire che l'uomo può tout-court diventare Dio: per loro la theosis «è l'incontro personale dell'uomo con Dio, in cui l'intera esistenza umana viene per così dire pervasa dalla presenza divina. Alla luce di tutto questo si comprende perche Dionigi Areopagita scriva che la divinizzazione «è assimilazione e unione con Dio, per quanto è possibile e che Massimo il Confessore affermi similmente che èssa «è 1'identità in atto, per somiglianza, per quanto è possibile, di colui che partecipa, a ciò a cui partecipa”.

E’ opportuno poi ricordare che, sebbene la teologia della theosis sia stata sviluppata essenzialmente nell'oriente cristiano, essa non  affatto estranea all'occidente, anche se le differenti comprensioni antropologiche hanno condotto gli occidentali a sviluppare piuttosto una dottrina della grazia in vista dell'acquisizione della santità. Tuttavia i padri latini, soprattutto quelli influenzati dall'oriente, parlano di deificatio, e anche dopo 1'acuirsi del distanziamento dell'occidente da questa dottrina con la Scolastica, se ne possono vedere le riapparizioni soprattutto nella mistica (ad esempio Eckart e i mistici renani e fiamminghi).

Basti ricordare qualche passaggio di Agostino: «Dio vuole fare di te un Dio, non però per natura come è colui che ha generato, ma per suo dono e per adozione. Come infatti egli, assumendo la natura umana, si è fatto partecipe della tua mortalità, cosi, per elevazione, ti rende partecipe della sua immortalità». L'incarnazione del Verbo appare essere la condizione della divinizzazione dell'uomo. Il Verbo che si è fatto carne ha dischiuso agli uomini la possibilità di divenire figli di Dio: l'uomo deve ormai essere all'altezza di questa vocazione e di questa speranza. “Solleva il tuo cuore, genere umano! ... Colui grazie a cui si diventa figli di Dio, prima era Figlio di Dio e poi si e fatto figlio dell'uomo ... Si e abbassato ad essere ciò che non era, lui che èra ben altro e ha innalzato te ad essere ciò che non eri, te che ben altro eri ... Solleva dunque la tua speranza, uomo!». Commentando I'espressione salmica che parla del «Dio degli dei» (Sal 50,1) Agostino dice: «E chiaro che ha chiamato dei gli uomini, deificati per sua grazia, non nati dalla sua sostanza ... Colui che giustifica anche deifica, perche giustificando ci fa anche figli di Dio». Una versione latina dell'espressione di Atanasio la troviamo in Ilario di Poitiers: «Il Verbo si e fatto carne affinché, tramite il Dio, Verbo diventato carne, la carne riceva 1'unione con il Verbo-Dio». Incarnazione e divinizzazione diventano cosi i due poli che sintetizzano l'intera opera della salvezza e la configurano come commercium, come scambio alla cui origine sta la libera iniziativa di Dio e il suo dono preveniente. Questa dialettica di scambio e ben espressa da Lutero in un sermone del 1526:

Dio ha riversato Cristo, il suo Figlio amato, su di noi e dimora in noi e ci attrae a se. Egli si è pienamente umanizzato e noi siamo pienamente divinizzati.

Pur nelle differenti sfumature e accenti oriente e occidente intendono entrambi la divinizzazione come un cammino umano in cui 1'uomo, “con le due ali della libertà e della grazia” – secondo la bella immagine di Massimo il Confessore – opera in sinergia con Dio, risponde all'agire di Dio e vi collabora.

Da queste premesse appare chiaro che dietro la divinizzazione occorre semplicemente vedere un cammino spirituale fondato sulla fede, nutrito dall'ascesi, dalla lotta spirituale, dalla preghiera, dalla tensione verso l'acquisizione del dono dello Spirito, che avviene sempre in uno spazio comunitario, ecclesiale. E questo processo avviene in un orizzonte escatologico, perche si realizzerà  nell'incontro col Signore faccia a faccia

 Dio si è fatto uomo perche l'uomo diventi uomo: l'umanizzazione dell'uomo

 Se questo è il senso dell'adagio patristico «Dio si a fatto uomo perche l'uomo diventi Dio”, oggi noi possiamo comprendere ed esprimere  altrimenti le conseguenze dell'incarnazione, con un altro linguaggio, che superi il rischio del dualismo insito nel concetto ellenistico di divinizzazione. La formulazione potrebbe suonare cosi: Dio si è fatto uomo perche l'uomo diventi uomo, perche l'uomo umanizzi la sua umanità. Del resto Ireneo di Lione scrive: «Come potrai essere Dio, se non sei ancora diventato uomo? Devi prima custodire il rango di uomo e poi parteciperai alla gloria di Dio”. La visione dell'incarnazione come finalizzata all'umanizzazione dell'uomo mi pare più conforme alla finalità della rivelazione biblica già nell'AT, non solo in quel Gesù di cui il NT afferma che è apparso «per insegnarci a vivere in questo mondo” (Tito 2,12). Cerchiamo dunque di esplorare, da tale punto di osservazione, 1'AT nelle sue tre componenti basilari: Torà, Profezia e Sapienza, per mostrare come esse sempre contengano una pedagogici dell'umano.

 a) La Torà

Cominciamo dalla Tora, la Legge, e in particolare dai comandi e precetti, dalle leggi contenute nella prima parte della Bibbia ebraica, dunque da quei testi che i cristiani meno frequentano e conoscono. Le motivazioni di tante leggi contenute nei diversi corpora legislativi della Torà cercano di plasmare 1'umanità dell'uomo, di creare un volto umano all'uomo, di immettere umanità nelle relazioni tra gli uomini.

In Es 22,20 si dice: “Non ti approfittare dell'immigrato, perche voi stessi siete stati immigrati in terra d'Egitto” e in Es 23,9 sta scritto: “Non opprimerai l'immigrato: voi infatti conoscete il respiro dell'immigrato, perche siete stati immigrati in terra d'Egitto”. Entrambi questi testi chiedono un lavoro di interiorità perche si fondano sulla memoria, sul fare memoria che è richiesto al figlio d'Israele a cui sono rivolte le prescrizioni: queste leggi sgorgano dalla coscienza che la memoria, e in particolare la memoria della sofferenza patita quando ci si trovava in determinate condizioni svantaggiate, può liberare dalla coazione a ripetere, dalla tentazione di ripercuotere su altri che ora si trovano nella medesima situazione la violenza subita una volta. Queste leggi cercano di impedire che la vittima di un tempo diventi l'oppressore di oggi. Ricordando la propria esperienza passata di immigrato in terra straniera, con il suo carico di fatica e sofferenza, ricordando la pesantezza dei ritmi di lavoro che toglievano il respiro, che èstenuavano fisicamente, che “davano il fiatone” (voi conoscete il respiro dell'immigrato), il figlio d'Israele è condotto non semplicemente a compiere gesti esteriori in favore di altri, ma a comprendere dall'interno, in un movimento di vera compassione, chi oggi si trova in situazione analoga alla sua di un tempo, e dunque a umanizzare il rapporto con 1ui. Un altro interessante testo recita: “Non prenderai in pegno la macina o la mola, perche sarebbe come prendere in pegno la vita stessa dell'altro” (Dt 24,6): in effetti, si tratta di oggetti vitali per la sussistenza dell'altro e della sua famiglia. Anche qui la legge non si limita a stabilire impersonali norme da applicare, ma contiene un appello all'uomo affinché apra il proprio cuore all'altro: è una legge che non si limita a regolare casi, ma ha di mira le persone. La legge chiede di prestare attenzione alle condizioni reali dell'esistenza dell'altro e alla possibilità della sopravvivenza sua e della sua famiglia, chiede dunque di umanizzare il rapporto con lui: la vita dell'altro può mettere limiti a ciò che si è in diritto di esigere da lui. La legge contenuta in Es 22,25-26 afferma: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perchè è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti quando invocherà da me aiuto, io (il Signore) ascolterò il suo grido perche sono compassionevole”. Di nuovo, la legge cerca di svegliare l'uomo alla coscienza dell'altro e alla sua situazione di bisogno. La motivazione della legge è importante tanto quanto la richiesta della legge stessa, e forse ancor di più: si obbedisce veramente alla legge solo se si entra nella comprensione profonda della sua motivazione. E questa motivazione tende a suscitare empatia, a cogliere con partecipazione la sofferenza dell'altro. Questa legge tende a fare di un rapporto creditore-debitore un rapporto tra persone, tra creature umane. La giustizia è tale quando è umana. Un altro testo interessante si trova in Lv 19,9-10: “Quando mieterete la messe del vostro campo, non mieterete fino ai margini del campo ne raccoglierete ciò che resta da spigolare; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli, non raccoglierai gli acini caduti, ma li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore vostro Dio”. Qui emerge 1'attenzione al povero e al forestiero, cui occorre lasciare qualcosa che possa assicurarne la sussistenza. In questo caso la legge non interviene per riparare un'ingiustizia, ma per instillare nel cuore dell'uomo il senso del povero, 1'attenzione a colui che è denutrito o svantaggiato. In Es 22,4 (e anche in Es 21,37) emerge l'istanza di giustizia e risarcimento: «Quando un uomo usa come pascolo un campo o una vigna e lascia che il suo bestiame vada a pascolare nel campo altrui, deve dare 1'indennizzo con il meglio del suo campo e con il meglio della sua vigna”.

Ciò che traspare da molti testi legislativi e che spesso le leggi bibliche hanno una portata simbolica, non sono necessarie a un migliore funzionamento della società, ma mirano solo a umanizzare le persone. E il caso della legge che proibisce di cuocere un capretto o un agnello nel latte di sua madre (Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre), legge ricordata ben tre volte: Es 23,19; 34,26; Dt 14,21. Si tratta di riportare 1'uomo al sentimento di pietà di fronte a una madre e al suo piccolo, e questo senza dimenticare il bisogno dell'uomo, il quale può uccidere il capretto per mangiarlo. E’ evidente che una legge simile ha una valenza tipica, che si estende ben oltre e al di là del caso concreto del capretto: essa vuole instillare qualcosa di universale, vuole far nascere un atteggiamento profondo che potrà poi applicarsi a tante e svariate situazioni. Possiamo leggere ancora Dt 22,6-7, che contiene una disposizione volta a suscitare il rispetto per la sorgente della vita: “Quando, cammin facendo, troverai copra un albero o per terra un nido d'uccelli con uccellini o uova o la madre che sta a covare gli uccellini o le uova, non prenderai la madre sui figli; ma scacciandola, lascia andar la madre e prendi per te i figli, perche tu sia felice e goda lunga vita”. Insomma, più che leggi qui abbiamo dei simboli, delle parabole che svelano il senso delle realtà umane alla Luce di Dio.

Quando poi Gesù riprende e radicalizza le leggi contenute nella Torà (cf. Mt 5,17-48), non fa null'altro che proseguire quest'opera di umanizzazione dell'uomo! Egli approfondisce il senso del «non uccidere” chiedendo una comunicazione non violenta tra gli uomini, chiedendo di non calunniare, di non insultare, di non fare un uso omicida della collera (Mt 5,21-22); egli interpreta il comando “non commettere adulterio” chiedendo la purezza dello sguardo del cuore (Mt 5,27); prepone le esigenze della riconciliazione fraterna all'adempimento dei precetti liturgici (Mt 5,23-24), eccetera.

 b) La Profezia

Un'interpretazione giudeo-ellenistica, presente già in Filone di Alessandria, sostiene che alla profezia biblica è essenziale 1'estasi, da raggiungersi attraverso tecniche è mezzi svariati. Tale lettura, in realtà, non è compatibile con la declinazione biblica del fenomeno profetico, poiche dietro ad essa si nasconde il principio, estraneo alla Scrittura, che ciò che è inaccessibile all'uomo nello stato di coscienza, gli viene concesso quando e fuori di se, nello stato di ebbrezza. In modo molto sintetico possiamo dire che la comprensione della profezia come estasi può essere espressa nei seguenti termini: quanto minore e la presenza dell'umano, tanto maggiore a la presenza del divino. Tale principio, che chiede di conculcare 1'umano per fare spazio al divino, si è a volte intrufolato anche nella spiritualità cristiana, ma ad esso si deve obiettare che un Dio che per imporsi deve negare l'uomo a il contrario del Dio della rivelazione biblica e dell'incarnazione. Per il profeta 1'apice dell'esperienza di Dio non è l'unione fusionale ed estatica col divino, bensì una comunione, per quanto e possibile all'uomo, con Dio, nella piena appartenenza all'umanità e alla terrestrità. Tale esperienza conduce il profeta a una comunione che non risponde a un modello intimistico e fusionale, ma che avviene nella storia e all'interno di una comunità. Cosi il profeta vive la propria avventura umana di fedeltà a Dio non certo evadendo nel settimo cielo, ma immergendosi nella storia, nella situazione (anche rovinosa) del suo popolo, smascherando gli abusi sociali, le oppressioni politiche è gli sfruttamenti economici, denunciando senza posa l'idolatria, che è sempre fattore di disumanizzazione dell'uomo. Ciò che l'orecchio del profeta percepisce è la parola di Dio, col suo carico di sollecitudine, cura, preoccupazione per il mondo; in altre parole, il profeta tenta di umanizzare la società e il cuore dell'uomo, denunciando i casi in cui l'uomo non è all'altezza della propria umanità.

Anche Gesù appare come profeta, uomo dalla parola tagliente, capace di rivendicare sempre il primato della persona umana sulle istituzioni e sulle leggi, fossero pure sacre, come il sabato o le tradizioni ricevute dagli antichi: “Non l'uomo è stato fatto per il sabato, ma il sabato per l'uomo” (Mc 2,27 e par.).

 c) La Sapienza

 Se ci volgiamo all'ambito sapienziale, qui addirittura il cuore dell'esperienza teologale è il primato dell'umano e della vita, 1'affermazione del diritto dell'umano e della vita stessa a criticare e a vagliare le acquisizioni teologiche, i “dogmi” teologici: 1'esperienza umana è il luogo di verifica dell'autenticità del teologico e dello spirituale! Si può pensare, ad esempio, alla cosiddetta dottrina della retribuzione, ovvero all'idea che Dio avrebbe ricompensato con felicità terrena il suo giusto servo: ritenuta a un certo punto una sorta di acquisizione teologica, di verità indiscutibile, questa dottrina ha poi dovuto essere riveduta e drasticamente corretta alla luce dell'esperienza umana, soprattutto dell'esperienza delle sofferenze del giusto. L'idea di fondo che ha fatto si che l'esperienza umana in Israele acquisisse tale importanza e dignità da diventare un cardine del canone biblico e, come ha espresso in modo magistrale Gerhard von Rad, che per Israele “le esperienze del mondo erano sempre esperienze di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo». Ecco allora che Qohelet prende sul serio la sfida che la morte porta al senso dell'esistenza umana e a Dio stesso: chi vuole conoscersi, umanizzarsi e imparare un senso da dare alla vita deve interrogarsi sulla morte e lasciarsi interpellare dalla morte. Oppure si pensi al Cantico dei cantici, che pone in primo piano, senza alcuna allegoresi, l'umanissima esperienza erotica quale cifra, nella sua stessa materialità, del rapporto di Dio con l'uomo: ciò che è divino nel Cantico è esattamente la relazione tra gli amanti, il dialogo amoroso che intercorre tra i due, il loro dirsi e il loro darsi reciprocamente. Ecco anche i Salmi dove il soggetto che prega e il corpo dell'uomo (Sal 35,10); in cui la preghiera è il porre la propria vita davanti a Dio per imparare a vivere in obbedienza a Dio; è il presentare al cospetto di Dio successi e fallimenti, morti e nascite, sconfitte e vittorie, gioie e sofferenze, per tutto valutare e ricevere alla luce della volontà di Dio. Ecco ancora i Proverbi e il Siracide che ci presentano la lezione del quotidiano come luogo teologico.

E come dimenticare che Gesù stesso mostra una dimensione sapienziale? Nelle parabole egli assume le umanissime realtà quotidiane e attraverso di esse narra Dio. Gesù è un uomo dall'umanità calda, capace di amicizia e di amore, desideroso di fraternità, pronto sempre all'incontro, attento ai bambini e compassionevole verso i sofferenti e gli emarginati. Nel suo linguaggio sapienziale emerge la sua capacità di osservazione del reale che per lui diviene parabola della presenza e dell'agire di Dio: Gesù evoca il regno di Dio con le immagini del fico che annuncia restate quando le sue gemme si fanno tenere, dei gigli del campo più eleganti di Salomone, della chioccia che raduna i pulcini sotto le ali, della massaia che impasta la farina e il lievito, dei pescatori che tirano a terra le reti...

Insomma, compimento della Scrittura è l'umanità di Gesù, quell'umanità che vuole insegnarci a vivere, se è vero che nella sua nascita «e avvenuta 1'epifania della bontà di Dio, per insegnarci a vivere in questo mondo, attendendo il compimento della beata speranza” (Tito 2,11-13). Riprendendo le parole di un contemporaneo, potremmo dire che “essere cristiano è diventare uomo in verità seguendo Cristo: è cristiano chi diventa uomo” (Denis Vasse). Anche Dietrich Bonhoeffer si sofferma su questa essenzializzazione dell'esperienza cristiana:

Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un Santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d'uomo, ma un uomo. Non è 1'atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo.

 L'umano di cui siamo ospiti

L'aprirci al dolore di Dio nel mondo, nella vita quotidiana, è anche il destarci all'umano lacerato, oscurato, menomato nella persona sofferente, nel portatore di handicap, nella persona segnata dalla malattia fisica o psichica; è cogliere la passione di Dio nel dolore e nella sofferenza dell'umano che è nell'uomo. Parlando dell'umano che è nell'uomo intendo parlare di qualcosa che è comune a ogni singola persona, a ogni singolo viso, ma che al contempo va oltre il singolo individuo, e non coincide neppure con la cosiddetta «specie» umana. Del resto, vi è la possibilità di un'umanità disumana: l'uomo non è naturalmente umano e umanizzato, così come non a naturalmente libero. L'umanità e la libertà sono conquiste per cui si lotta e doni alla cui accoglienza occorre aprirsi. Si verificano spesso disumanità nella chiesa, nelle relazioni fraterne comunitarie, così come nei rapporti familiari, tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra anziani e giovani, e poi nelle relazioni sociali, politiche, cosi nelle relazioni più personali e intime, nelle relazioni sessuali, nell'amore (o in ciò che chiamiamo tale). Dovremmo imparare a considerarci ospiti dell'umano che è in noi. Ospiti, non padroni. Così potremmo imparare anche ad aver cura dell'umano che è in noi e ad essere solleciti anche verso l'umano sofferente che è nell'altro. Forse, l'umano che a in noi a esattamente il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio (cf. Gen 1,26-27).

Si comprende come il divenire umani sia per il cristiano l'opera della fede e implichi l'obbedienza alla parola del Dio creatore che ha detto: “Facciamo 1'uomo” (Gen 1,26). Anche noi uomini siamo implicati in quel «Facciamo»! L'uomo e chiamato a collaborare con Dio affinché cresca in lui quell'umanità che è il vero riflesso della luce divina nel mondo, è il luogo di Dio nel mondo, luogo che, come 1'azione dello Spirito, va ben oltre le confessioni cristiane e gli spazi ecclesiali!

 

L'umanità della fede

A questo punto si può cogliere meglio che cosa intendo per umanità della fede”. L'umanità della fede e un riflesso di quella che Karl Barth ha chiamato «1'umanità di Dio” e che trova il suo vertice nella libertà:

 Dio ci incontra nell'esistenza di Gesù Cristo, nella sua libertà. Egli non vuole essere senza l'uomo, bensì con lui e, nella stessa libertà, non contro di lui, bensì per lui ... Egli vuole essere il partner dell'uomo e il suo misericordioso salvatore ... Egli decide di amare proprio lui, di essere proprio il suo Dio, il suo Signore, il suo Dio misericordioso, il suo Salvatore per la vita eterna ... In questo atto divinamente libero di volere e di scegliere, in questa sovrana decisione Dio è umano. La sua libera affermazione dell'uomo, la sua libera partecipazione alla sua esistenza, il suo libero intervenire per lui: questa è l'umanità di Dio.

 L'umanità di Dio noi la incontriamo nella libertà dell'uomo Gesù, libertà che diviene anche bontà e misericordia: oapparuit benignitas et humanitas Salvatoris nostri Dei” (Tito 3,4 Vulg.). La vita che Cristo ci insegna a vivere è quella che lui stesso ha vissuto! E al cuore della sua vita sta la libertà, che è condizione di umanizzazione della nostra vita. Gesù vive la libertà nei confronti dei legami familiari, delle convenzioni sociali, sceglie una vita celibataria contraria alla mentalità dominante, da vita a una comunità itinerante in cui anche ai suoi discepoli chiede analoga libertà. Gesù mostra grande libertà anche nei confronti dei gruppi religiosi dell'epoca, entrando in contralto con loro quando usano il Nome di Dio per disumanizzare l'uomo, facendo della religione uno strumento di potere: «Sulla cattedra di Mose si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perche dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,2-4). Altri testi evangelici molto chiari in questo senso sono i seguenti:

 Mc 3,1-5: Gesù si adira per la durezza di cuore dei suoi interlocutori che non sanno cogliere il suo gesto terapeutico (ha guarito in giorno di sabato un uomo che aveva una mano paralizzata) come vero adempimento del senso del sabato;

Mc 7,9-13: Gesù opera la distinzione tra il comandamento di Dio e la tradizione degli uomini, e denuncia la disumanità e 1'ipocrisia di chi si sottraeva all'obbligo di aiutare i propri genitori consacrando (dichiarando qorban) le proprie ricchezze a Dio: finzione legale grazie alla quale la persona restava proprietaria dei suoi beni;

Mc 2,23-28: Gesù mette in primo piano il bisogno dell'uomo, la sua fame, che può consentire e rendere lecito ciò che certe tradizioni religiose volevano vietare in giorno di sabato, come il gesto di strappare spighe per nutrirsi dei chicchi di grano.

 Gesù manifesterà inoltre la sua libertà di fronte al potere politico, ma anche rispetto ai discepoli, che pure ama, redarguendoli quando assumono tratti di disumanità, di ricerca di privilegi, di potere... Si comprende che di lui si sia potuto dire: “Maestro, sappiamo che tu sei franco, libero, e che insegni la via di Dio con sincerità, senza preoccuparti di nessuno, perche non tieni conto del rango delle persone” (cf. Mt 22,16).

Come si è detto, al cuore dell'umanità della fede c'è la libertà, un tratto decisivo dell'umanità dell'uomo. Ora, la libertà cristiana, che ci chiede di asservirci liberamente all'evangelo e di  “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29), abbisogna di un'antropologia, di un cammino umano per istituirsi. Assumere la libertà evangelica significa istituire in noi un cammino umanissimo di libertà: qui sta il nucleo fondamentale perche la fede sia oggi eloquente e comprensibile agli uomini. Vie dunque una dimensione umanissima del cammino verso la libertà, cammino che comporta diverse esigenze:

integrare le lezioni che ci vengono dalle esperienze vissute;

mettere a frutto la conoscenza che ci viene dagli sbagli, dagli errori, dai peccati;

avere il coraggio di affrontare i rischi e le incertezze;

compiere delle scelte, ma saper anche modificare e purificare le scelte fatte;

essere capaci di coscienza, cioè di pensare con la propria testa e di affrontare anche le difficoltà  che appariranno nel cammino, le messe all'indice e gli anatemi;

essere aperti al nuovo, all'inedito, allo sconosciuto;

problematizzare, non dare nulla per scontato.

E potremmo proseguire. Questo cammino è necessario per creare le premesse per una libertà che sia reale e non ideologica o fittizia, e che possa essere vera anche dal punto di vista cristiano. Quanto detto circa la libertà vale per moltissimi altri elementi della fede cristiana. Oggi la fede, per essere eloquente, deve saper orientare l'umano e dunque essere innestata su di esso. In certo modo, e non vie alcun minimalismo in questa affermazione, il cristianesimo deve sapersi riscoprire come arte di vivere, e proprio nella sua capacità di ispirare e suscitare vita potrebbe trovare forza ed eloquenza rinnovate.

 La fede come cammino del senso

 La fede è chiamata a declinarsi come cammino del senso della vita, cioè a prendere sul serio, ma anche a suscitare, tenere desta e orientare la domanda sul senso della vita in tutte le sue valenze: significato, direzione, gusto. La sete di senso che abita il cuore dell'uomo non potrà mai essere saziata da un senso imposto dall'alto o dall'esterno. Gli uomini vorrebbero vedere e incontrare dei testimoni del senso, e questo nel momento stesso in cui si mostrano assolutamente allergici a discorsi di autorità che vorrebbero imporre decaloghi che dicono all'uomo ciò che è bene e ciò che è male, che gli dicono quel che deve e non deve fare. Chi oggi ha autorevolezza è colui che testimonia di un senso possibile perche lui stesso 1'incarna. I testimoni del senso sono persone che nella loro stessa vita, nelle loro relazioni, danno realtà al senso della vita che hanno scoperto e a cui si sono asserviti. L'umanità e la credibilità della fede si giocano oggi sulla capacità dei credenti di creare comunità, di dare vita a spazi umani condivisi, a vite relazionate incentrate sull'evangelo. Siamo capaci di far nascere vite vissute insieme? La crisi della comunità, a livello sociale, politico, familiare, è sotto gli occhi di tutti, e la chiesa stessa ne è investita (il pullulare di forme di aggregazione più fluide come movimenti, più rigide come sette, più ridotte numericamente come gruppi o conventicole, eccetera, e lì a dimostrarlo). Solo la communitas, con il suo fondamento trinitario e cristologico, e con tutti i suoi contenuti antropologici può trasmettere nell'oggi la fecondità dell'evangelo e può trasmettere senso: il cristianesimo sa dare vita a comunità oppure viene meno al suo proprium! Probabilmente si nasconde qui la radice della crisi dell'evangelizzazione di cui tanto ci si lamenta...

La profezia della chiesa oggi, il suo saper tradurre nell'oggi storico il messaggio della parola eterna di Dio, passa attraverso la ripresa della dimensione comunitaria della profezia stessa. Una dimensione ben nota al NT: il dono dello Spirito è per tutti i credenti, sicché si può e si deve parlare di comunità cristiane locali costituite come soggetto profetico, luoghi in cui si vive realmente il primato della parola di Dio e avviene realmente un incontro fraterno, « communita alternative» in cui si sperimentano valori profondi, anche in contrasto con ciò che si respira quotidianamente nel mondo. Un luogo che, “in una società connotata da relazioni fragili e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco”. Comunità la cui quotidianità sappia dire che un modo di vita «altro» e possibile, che la concorrenzialita e l'individualismo, il carrierismo e la denigrazione dell'avversario, il cinismo e 1'assolutizzazione dell'interesse particolare non sono le uniche strade percorribili, ma che la felicita e la realizzazione della persona si nutrono piuttosto di ascolto, accoglienza, solidarietà, perdono, gratuità, servizio, carità, reciprocità, attesa dei tempi dell'altro... Se il profeta, secondo la rivelazione biblica, è colui che fa segno, ed è lui stesso, con la sua vita e le sue relazioni, segno (cf. Isaia 8,18), la dimensione profetica della comunità dovrebbe interpellare la chiesa e ogni comunità cristiana sulla loro capacità di essere segno, cioè di aprire futuro, di suscitare orizzonti di vivibilità, di creare speranza, in una parola, di dare senso. Molti ci dicono che ormai le domande che sempre più verranno poste riguarderanno la funzionalità e 1'utilità delle cose, non la verità e la bellezza: forse qui c'e uno spazio in cui i cristiani possono resistere a questa tendenza, cercando di custodire dei valori umanissimi, che sono anche spirituali. La chiesa può divenire il luogo in cui la domanda radicale sul senso è custodita e tramandata: ciò può umanizzare l'uomo. Se la profezia è anche anti-idolatrica, oggi ci sono idoli nascosti (individualismo, narcisismo, omologazione, rimozione dell'interiorita, asservimento al tecnologico) che impongono ai cristiani di attuare un'opera di resistenza per ricreare un tessuto umano che oggi appare sempre più sfilacciato. Senza tale tessuto come si può istituire la fede, vivere la preghiera e la fraternità all'interno di una vita ecclesiale? Occorre ricreare oggi una grammatica dell'umano che consenta 1'accoglienza della parola di Dio e lo svilupparsi del dono della fede: questo sarebbe veramente un servizio, da farsi dialogicamente con chi attua una lotta anti-idolatrica, anche per gli altri, i non credenti. Declinare la fede come cammino del senso significa credere e testimoniare che Cristo può orientare il senso della vita e che la sua umanità può umanizzare la nostra. Vi e chi ha scritto recentemente:

Nessun uomo è più umano di Gesù quando va incontro a malati, a esclusi, a poveri, a peccatori. Nessun uomo spinge più lontano la condivisione della condizione umana fin nella solitudine, nell'ingiustizia, nella violenza, nella sofferenza e nella morte. E nessun uomo più di lui a stato abitato dall'Amore: «Come il Padre mi ha amato, cosi anch'io ho amato voi” (Gv 15,9). «Ecco l'uomo” (Gv 19,5). Il senso che la chiesa offre e propone e questo: Dio non dispera dell'uomo. Questo èe il suo modo di essere fedele.

Prendere dunque sul serio oggi, nell'opera di trasmissione della fede, le domande umane e la domanda basilare sul senso, non solo non è estraneo al cristianesimo, ma è in linea di continuità con la logica dell'incarnazione. I discepoli hanno dato un senso radicale alla loro vita dopo avere visto 1'umanità di Gesù, dopo avere ascoltato le sue umane parole, dopo essere stati testimoni dell'umanità del suo agire, dei gesti di guarigione e compassione con cui egli esprimeva la sua cura dell'umano menomato, e dopo averlo riconosciuto come risorto a partire dai gesti umanissimi con cui egli si e presentato loro: chiama per nome Maria (cf. Gv 20,11-18), spezza il pane nel gesto quotidiano della condivisione della tavola (cf. Lc 24,13-35), mangia e parla insieme con loro (Lc 24,36-49)... E dopo avere visto la sua umanità che èssi hanno saputo riconoscere e confessare la divinità e ri-orientare la loro stessa esistenza. Questo discorso sul senso non vuole affatto dire che la chiesa ne sia la depositaria o ne abbia il monopolio, anzi! La fede non è una corazza fatta di certezze, non è un sistema di sicurezze e neppure una bacchetta magica: “Il credente esercita la sua fede sull'oceano del nulla, della tentazione e del dubbio: questo oceano dell'incertezza è il solo luogo in cui egli possa esercitare la fede>> (Joseph Ratzinger). La fede è, costitutivamente, anche rischio. Quando parlo della fede come cammino del senso intendo dire che la fede si apre alle dimensioni umanissime del senso stesso e cerca di illuminarlo col suo riferimento fondante e basilare a Cristo. Dicendo senso intendo significato, cioe ricerca dei motivi, del «perche» delle cose, che porta a comprendere il reale; ma senso dice anche orientamento, direzione, cioe ricerca del come camminare e del fine verso cui dirigersi; implica dunque il livello dell'etica (come?), ma anche del destino della vita, dell'orientamento dell'intera esistenza, dei fini ultimi; infine senso ha a che fare con il gusto, dunque con i sensi e rinvia alla dimensione estetica, della bellezza, essenziale per far respirare l'uomo a pieni polmoni e umanizzarlo pienamente. Ecco, la fede assume queste domande («perche?» , <come?» , verso dove?») e in Cristo le orienta: egli infatti e “via, verita e vita” (cf. Gv 14,6).

Fede da umanizzare

Aspetti della fede che richiedono un'umanizzazione

Prendo in esame alcuni aspetti della vita di fede che richiedono un'umanizzazione, e anche un'evangelizzazione.

a) La vocazione e la volontà di Dio

Che cos'e, secondo la Scrittura, la volontà di Dio? Mi pare che sia assai diffusa una concezione un po' caricaturale di questa realtà. Secondo la rivelazione biblica la volontà di Dio non è qualcosa di prefissato, di statico, di prestabilito ab aeterno, di predeterminato che l'uomo deve scoprire in modo più o meno fortunoso e a seguito di ricerca presumibilmente assai angosciosa; non è qualcosa che dall'alto cade sull'uomo: questo sarebbe il gioco di un Dio sadico, irresponsabile. Ma cosa vuole veramente il Dio biblico? Innanzitutto che la creatura viva, che assuma la vita come vocazione, che assuma l'umano come vocazione e compito da realizzare, e che viva stando in quello spazio di libertà dialogica e di responsabilità in cui egli stesso, il Creatore, 1'ha posta. Questa la vocazione fondamentale dell'uomo! E assurdo e disumano pensare e affermare che solo chi si trova in un certo status (matrimoniale, religioso, presbiterale...) stia onorando la vocazione. La vocazione che viene da Dio implica il compito di realizzare 1'unicità del proprio volto e del proprio nome! E la vocazione cristiana inscritta nel battesimo chiede all'uomo di realizzare la propria umanità «in Cristo”. La vocazione, poi, non è un gia-dato, una “collocazione” stabilita dagli inaccessibili e imperscrutabili disegni divini e destinata alla creatura la quale dovrebbe « trovarla» in una logica da «gratta e vinci” o «scoprirla» quasi per magia. Si pensi, ad esempio, al peso accordato ai “segni” da parte di tanti,  soprattutto giovani, che sono in ricerca della propria vocazione, della scelta «giusta» e “secondo Dio” da compiere: si ricerca un elemento che si impone e che, quasi con 1'oggettività di ciò che è esterno e viene (verrebbe!) da Dio, indica la scelta da intraprendere. In realtà si tratta sempre di elementi che il soggetto interpreta come segno e cui accorda un certo senso piuttosto di un altro. Questa e un'operazione deresponsabilizzante e regressiva oltre che èstranea all'evangelo: il Dio cristiano non ha nulla a che vedere con il fato pagano o con il caso. La volontà di Dio abbisogna della volontà e della responsabilità dell'uomo! Ciò che Dio vuole e, infatti, la libertà dell'uomo e la sua umanizzazione! Anzi, il Dio rivelato da Gesù Cristo vuole la felicita dell'uomo, una felicita trovata nell'amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicita che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni. Bonhoeffer scrive giustamente che le esortazioni paoline sul discernimento (Rm 2,18; 12,2; Fil 1,9-10; Ef 5,9 seguenti) correggono radicalmente l'idea secondo cui la conoscenza semplice della volontà di Dio debba avvenire sotto forma di intuizione, prescindendo da ogni riflessione e attenendosi ingenuamente al primo pensiero o sentimento che si presenti alla mente ... Non e affatto detto che la volontà di Dio si imponga senz'altro al cuore umano come una possibilità unica ne che èssa sia chiara ed evidente, o che si identifichi con i pensieri del cuore ... La volontà di Dio non è un sistema di norme stabilito una volta per tutte, ma è sempre nuova e diversa nelle diverse situazioni, perciò bisogna sempre di nuovo cercare quale essa sia. Il cuore, la ragione, l'osservazione e 1'esperienza devono tutti partecipare a questa ricerca.

La «volontà di Dio>> e un evento dinamico the scaturisce dall'incontro tra le esigenze dell'evangelo e la precisa creaturalita della singola persona. Li avviene la volontà di Dio, 11 essa prende forma quale evento spirituale. Occorre pertanto correggere le maldestre interpretazioni della volontà di Dio che possono inficiare una relazione di accompagnamento spirituale ingenerando atteggiamenti nevrotici e angosciati in chi e in ricerca o chiudendolo all'interno di una religione del dovere, oppure portando 1'accompagnatore a giochi di potere e di seduzione (nel senso etimologico di <<condurre a se» , se-ducere, invece di <<far uscire>>, e-ducere, verso la libertà e verso il Signore).

La volontà di Dio e un'offerta che libera la nostra umanità, e una proposta di libertà. Gesù si rivolge ai suoi interlocutori dicendo loro: <<Se vuoi», suscitando quindi la libertà della persona. Gesù chiama anche con forza e autorevolezza, ma non dice mai <Tu de-vi!>>, non esime mai dal rischio della libertà e dalla fatica della responsability. E cio e talmente vero che i vangeli ci trasmettono casi di persone che, magari al prezzo della propria tristezza, hanno opposto un rifiuto alla chiamata di Gesù (cf. Mc 10,17-22). Gesù non si mai imposto agli altri, al contrario, ha creato spazi, ha aperto possibilità, ha offerto senso, ha dischiuso un cammino, ha acceso una Luce, ha indicato una possibile direzione. E l'obbedienza gradita a Dio e quella dell'uomo libero: solo chi e libero può obbedire e fare della propria libertà un'offerta29! Condizione dell'obbedienza gradita a Dio e la libertà dell'uomo. Anche, e pii che mai, in no-me dell'obbedienza si possono esercitare abusi spirituali e giochi di potere che offendono 1'umanità dell'uomo.

Possiamo dunque affermare che la vocazione come scoperta di una volontà di Dio sull'uomo a l'incontro tra 1'esigenza radicale dell'evangelo e la personale libertà dell'uomo: 11 scaturirà, come frutto dello Spirito santo, la risposta e la scelta dell'uomo.

b) Il rinnegamento di se

I1 rinnegamento di se di cui parla 1'evangelo non a da intendersi come masochismo. Si veda, dal punto di vista esegetico, il testo di Mc 8,34, dove Gesu afferma: <<Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua>>. Qui Gesu si rivolge a tutti, folla e discepoli (<<Convocata la folla insieme ai discepoli, disse loro>>: Mc 8,34), a partire dalla solita offerta fatta alla libera volontà dei suoi interlocutori. Ma qual a il senso di questo versetto? I primi due comandi (<<rinneghi se stesso>> e <<prenda la sua croce>>), formulati all'aoristo, indicano un'azione puntuale, fatta una volta per tutte; 1'ultimo (<<mi segua>>) e invece al presente e suppone una durata, una ripetizione nel quotidiano. Tali immagini sono tratte dall'ambito giudiziario e indicano la pena del condannato a morte: rinnegare se stesso significa rinunciare alla difesa e prendere la propria croce indica 1'atto con cui ii processato, una volta condannato, viene costretto a portare lui stesso to strumento della propria esecuzione. Fuor di metafora, le espressioni indicano che il discepolo di Gesa deve smettere di giustificarsi e difendersi, uscire dalla logica dell'autogiustificazione, assumere la croce dietro a Gesa, dunque non confidare pia in se stesso, e seguirlo giorno dopo giorno. In tutto questo non c'e alcun masochismo, anche perche la rinuncia – e nella vita cristiana e possibile giungere fino alla perdita della vita, al martirio, essendo questa possibility insita giy nel dinamismo battesimale – e possibile solo se awiene nella libertà del credente: per rinnegare se stessi occorre avere un se, mettere in atto la volontà, essere un soggetto! Solo chi ha un'identità stabilita puo operare rinunce sensate, cioe nello spazio della libertà e dell'amore; al di fuori di questo si resta nell'etica del dovere, che non ha nulla a che fare con la gratuità dell'evangelo. Questo rinnegamento di se rischia dunque di agire come nevrosi, di essere utilizzato come paravento da chi non voglia affrontare e dare il nome at desiderio profondo che to abita, da chi voglia evitare 1'avventura della libertà. La libertà puo spaventare, ma a proprio la libertà dell'accompagnato che 1'accompagnatore spirituale deve tener presente come obiettivo del proprio lavoro! Vedere il proprio desiderio pith incutere paura e allora il rinnegamento di se pm) di-venire la formula che copre il terrore di vivere, che giustifica <<spiritualmente>> chi vuole evitare di guardare se stesso in profondity, rischiando di scoprire cite che non vorrebbe mai vedere in se. C'e un rinnegamento di se che viene invocato semplicemente per nascondere la paura della vita dietro un paravento spirituale ed evangelico.

c) Il dovere di amare gli altri

Il cristianesimo non a una religione della prestazione, meno che mai at livello dell'amore. Occorre guardarsi dal rischio di confondere amore di se come cura dell'umano di cui si a ospiti e, d'altra parte, egoismo, philautia, egocentrismo. Chi ama 1'altro non to fa, normalmente, disprezzando se stesso: una giusta e sana valutazione positiva di se risponde per il cristiano al fatto di sentirsi lui stesso amato da Dio! Dio ci ama (cf. Ap 1,5); Dio mi ama (cf. Gal 2,20): e questa la rivelazione fondamentale, il nucleo portante da cui scaturirà la capacità del credente di amare. Capacità che è risposta alla realtà teologale scoperta su di se: ciascuno e, in prima persona, amato da Dio. Com'e dunque possibile disprezzare se stessi? L'espressione biblica “amerai ii prossimo tuo come to stesso» (Lv 19,18; Mc 12,31 e par.) <<significa che il rispetto per la propria integrity, 1'amore e la comprensione di se stessi, non possono essere scissi dal rispetto, dall'amore e dalla comprensione per un altro essere umano»30. Chi ama in maniera matura ama anche se stesso, mentre chi riesce ad amare solo gli altri, non ama in pienezza. La massima biblica che chiede di amare gli altri come se stessi suppone dunque quella cura positiva di se che non ha nulla del-1'egoismo, cioe del fare di se il parametro della realty, 1'assoluto a cui si asserviscono gli altri. Anche se nella tradizione cristiana 1'espressione «amare se stessi>> e vista con sospetto o apertamente condannata, tuttavia non e affatto detto che èssa sia sinonimo di egoismo. Anzi, «egoismo e amore per se stessi, anzichè essere uguali, sono opposti. L'egoista non ama troppo se stesso, ma troppo poco; in realtà odia se stesso».

Anche l'opposizione tra diversi tipi di amore deve essere ridimensionata: tra Bros e agape non c’è 1'incompatibilità che alcuni pretenderebbero. In ogni forma di amore, nell'eros come nell'agape, c'e sempre sia 1'intimo dinamismo di perdita di se che, al con-tempo, di affermazione di se. Esiste dunque un sano e vitale amore per se stessi. Di solito chi e capace di dedizione per gli altri a anche capace di una valutazione positiva e serena di se. Non bisogna temere la prospettiva di una felicity possibile: la vita cristiana a anche appello alla <<beatitudine>>, a quella felicity che normalmente è il motore profondo delle azioni umane. Al contrario, esiste la possibilità di un “altruismo nevrotico” per cui ci si sente vivi solo se oci si spende però, in una sorta di onevrosi da autocancellazione”: non trovando consistenza e motivi di autostima in se, li si cerca nel avedersi fare il bene per altri”. Ci sono persone che incattiviscono nel fare-il-bene-per-gli-altri. Non si puo non condividere la massima di Meister Eckhart che dice:

Se tu ami te stesso, ami anche gli altri come ami te stesso ... E grande e giusto chi, amando se stesso, ama in egual modo il suo prossimo e chi, amando il proprio prossimo, sa accompagnare questo amore con un sano amore di se.

 

Di nuovo, l'umanità di Gesù dovrebbe insegnarci che egli, persona dilatata nell'amore per gli altri, ha anche saputo vivere una vita segnata da bellezza, felicità, «auto-realizzazione». Ha mostrato un atteggiamento di sano godimento di cose quotidiane e umanissime che stava nello spazio di un giusto apprezzamento delle cose del mondo e dunque della propria esistenza, di se, della propria vita

d) Fede e sofferenza

Anche su questo tema rischiamo di nutrire delle idee che pensiamo esser pie ed evangeliche, ma che non to sono. Ho la sensazione che molti luoghi comuni sulla sofferenza, che ancora circolano nello spazio cristiano e abitano il discorso spirituale (o preteso tale) sulla sofferenza, siano poco umani e poco evangelici.

Gesù ha combattuto la malattia e la sofferenza, non ha mai predicato rassegnazione di fronte ad esse. Sul suo esempio, vale nuovamente il fatto che il principio dell'esperienza umana deve portarci a criticare certi luoghi comuni: nell'esperienza di malattia non sappiamo assolutamente a quale esito giungeremo! Potrà trattarsi del-la bestemmia, oppure di un raffinamento spirituale, oppure del mutismo, o dell'urlo... Certo, Gesù non ha mai detto di «offrire a Dio la sofferenza>>, ma ha cercato, per quanto poteva e gli era consentito, di curare, di far recedere il male, di opporgli un netto rifiuto.

Eppure, un'espressione che ricorre frequentemente nei discorsi spirituali cristiani circa la sofferenza e la malattia e quello che invita a offrire a Dio la sofferenza. Che cosa significa questa espressione? La risposta the viene da un malato grave e molto netta: «Non si offre qualcosa di cattivo, ha detto un malato di cancro intervistato da Andre Seve, «Cristo non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma gli ha offerto ciò che egli diventava in quelle sofferenze: un essere che andava fino al fondo, fino all'estremo, fino al punto più profondo dell'amore, fino a quei vertici di amore che sono capaci di salvare». Questa affermazione sposta 1'accento dalla sofferenza all'amore, e questo spostamento a equilibrato ed equilibrante dal punto di vista sia umano che teologico. Umano: e 1'amore che può dare senso anche all'insensatezza della sofferenza. Teologico: la rivelazione cristiana afferma che è 1'amore che salva, non la sofferenza. La sofferenza può, infatti, abbrutire, mentre 1'amore puo umanizzare anche chi vive gravi situazioni di dolore. Questo e verificabile anche nella vita e nella morte di Gesù. Non e la croce e non sono le sofferenze patite nella passione e sulla croce che hanno reso grande Gesù, ma a l'esatto contrario: a la vita di Gesù, l'intera vita di Gesù traversata dall'amore, spesa nell'amare, che ha dato senso anche a quell'abominio che èra, che è e che sempre resters la croce. Strumento di tortura e di pena di morte che uomini comminano ad altri uomini, la croce appare simbolo delle situazioni di sofferenza che disumanizzano, simbolo degli inferi dell'esistenza. Non la croce, ma colui che vie appeso e steso copra e veramente importante e decisivo: quella morte diviene eloquente alla luce della vita precedente che la illumina con la luce dell'amore e della dedizione incondizionata agli altri. Il Cristo Signore, colui che “ha fatto bene ogni cosa” (Mc 7,37), the e passato facendo il bene, guarendo e liberando (cf. At 10,38), colui che è i1 “maestro buono” (Mc 10,17), che ha amato i suoi fino all'estremo, fino al punto di non ritorno (cf. Gv 13,1), da senso alla croce, ovvero anche alle sofferenze fisiche, psichiche, morali, che si sintetizzano nella realtà della croce. Cristo non ha offerto le sue sofferenze, ma ha offerto se stesso, ha fatto della sua vita un'offerta a Dio trovando la propria gioia nell'amare gli altri e questo 1'ha fatto sempre, non solo sulla croce: la croce e il culmine di una vita spesa per gli altri, nell'amore e nella dedizione. Il rischio insito nell'atteggiamento ispirato alla disposizione di offrire a Dio la sofferenza e quello del dolorismo, del pensare che la sofferenza in quanto tale abbia un valore salvifico e sia gradita a Dio, e, connesso a questo c'e il rischio dell'immagine di un Dio perverso, sadico, che si compiace della sofferenza che l'uomo patisce fino ad accettarla come offerta gradita. In sostanza il problema e questo: come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta 1'umanità del suo figlio, l'uomo? Come può il Dio Padre di Gesù Cristo gradire come offerta ciò che è male per la sua creatura? Un passaggio del teologo Xavier Thevenot mi pare impostare correttamente la questione: «La consegna spirituale "offri le tue sofferenze" deve conoscere un processo di chiarificazione. La potenza di questa formula e notevole in quanto decentra da se la persona sofferente e le fa cogliere in un istante che ciò che ha gusto di morte può diventare il luogo di uno scambio con Colui che lei ama. Ma allo stesso tempo, essa rischia di far dimenticare che la gioia di Dio non potrebbe mai consistere nel ricevere ciò che è cattivo, ma nell'accogliere come un dono cio che costruisce l'uomo sotto 1'effetto del suo amore di-vino riconosciuto. I1 "piacere" di Dio e di vedere che la sua Presenza misteriosa, manifestata nel suo Figlio e attraverso l'azione del suo Spirito, e capace di permettere a quella persona schiacciata dal dolore di lottare contro le forze di disunione che la sofferenza sviluppa e di ritrovare a poco a poco il gusto della vita. Se colui che soffre ha qualcosa da offrire nella sua prova, non sono le sue miserie, le sue malattie, le sue sofferenze — tutte cose che dispiacciono a Dio, come mostra 1'atteggiamento di Gesù nel vangelo —, bensì e questo lavoro discreto di Dio in lui. E questa scoperta stupefacente e talvolta anche meravigliata che, se ci si rimette nelle mani di Dio, la vita può ancora sgorgare anche quando il male sembra sommergere tutto». Il problema di fronte alla sofferenza non a anzitutto quello di <<offrirla>>, quasi santificandola immediatamente. Dietro a questo atteggiamento potrebbe esservi la rimozione della fatica che essa chiede, ovvero, quella di assumerla, di darle un senso, di integrarla nella propria vita accettando che essa possa suscitare in noi reazioni di rivolta e ribellione. Probabilmente 1'espressione «offrire a Dio le sofferenze” esprime in modo maldestro e troppo abbreviato qualcosa di più complesso e vero: fare anche della malattia e della sofferenza un cammino in cui si conosce qualcosa della vicinanza e della consolazione di Dio; continuare, pur con tutte le difficolta e le intermittenze dovute alla gravita della sofferenza, a nutrire fede, speranza e carità anche nella prova. Ma in verità, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, bensi di che ne abbiamo fatto: al cuore di ciò che quella espressione significa in profondo, non vi sono le sofferenze, ma il lavoro interiore e di fede che abbiamo compiuto e che abbiamo lasciato compiere a Dio in noi. In sintesi: è la passione dell'amore che può dar senso alla passione del soffrire. Si tratta di offrire a Dio ciò che si è divenuti passando attraverso la sofferenza, dandole un senso con 1'amore.

f) I movimenti umani che sottostanno alla preghiera

La preghiera a un movimento teologale, un'apertura alla comunione col Signore, ma non e riducibile a un «parlare a Dio”. In verità già il «parlare a Dio” è infinitamente più  serio e importante, ai fini della fede, del parlare di Dio, del fare di Dio l'oggetto di un discorso. Martin Buber 1'ha espresso con efficacia: Se credere in Dio significa poter parlare di lui in terza persona, non credo in Dio. Se credere in lui significa potergli parlare, allora credo in Dio.

Tuttavia occorre andare oltre questa affermazione per aggiungervi (o, meglio, farvi precedere) la dimensione dell'ascolto, dell'ascolto personale di Dio! Il cardinal Ratzinger, parlando al Consiglio delle conferenze episcopali europee, ha affermato:

I1 modo fondamentale di una relazione personale e il colloquio. Ma sarebbe insufficiente dire che il colloquio con Dio si chiama preghiera. I1 dialogo, infatti, esige reciprocità: non solo la nostra parola, il nostro parlare, ma non meno il nostro ascolto ... Come e possibile ascoltare la voce di Dio? Ascoltiamo Dio ascoltando la sua parola dataci nella Sacra Scrittura.

Biblicamente la preghiera e anzitutto ascolto della parola di Dio. Questo ascolto noi lo realizziamo anzitutto attraverso la lectio divina, dunque come ascolto della parola di Dio nelle pagine della Scrittura, ma anche come ingresso nella relazione personale con il Signore. Se la lectio divina richiede l'umana fatica del leggere e dell'interpretare il testo letto, del leggere se stessi alla luce del testo, del conoscere la presenza di colui che parla attraverso le pagine scritte, la relazione personale con il Signore richiede l'umanissima fatica della vita interiore per accogliere in se la presenza del Signore. Se il problema della preghiera e quello di entrare in relazione con il Signore, allora 1'essenziale e predisporre il nostro cuore, cioè tutta la nostra persona per accogliere la sua presenza e la sua volontà. In tale ascolto il credente mette a disposizione la propria libertà, rendendosi disponibile a Dio. Ma 1'ascolto e un atto umano esigente: esso implica una vita interiore profonda e articolata, vita interiore che oggi, in un tempo in cui si rischia la colonizzazione dell'interiorità, dobbiamo preservare, salvaguardare e imparare a frequentare perche lì s'innesta 1'autenticità della preghiera, al di là delle forme che èssa assume. Occorrerà dunque praticare alcuni elementi umanissimi:

il silenzio che ci scruta e ci denuda;

la solitudine per ritrovare 1'autenticità delle nostre relazioni;

la capacità di pensare, di porre davanti a Dio la propria quotidiana esistenza per riceverla rinnovata dalla sua Luce e vivere in modo più conforme alla sua Parola;

l'attenzione, la tensione interiore essenziale per dare senso al nostro fare;

la vigilanza, la capacità di esser lucidi e critici su di se, gli altri, gli eventi, la presenza del Signore che gia nell'oggi ci visita.

Tutto questo ci dice che la preghiera, azione dello Spirito santo nel profondo dell'uomo, e anche un cammino umano, umanissimo.

Conclusione

Il Verbo si e fatto carne». Da questa asserzione giovannea abbiamo preso le mosse per la meditazione sull'umanità della fede che spero non sia colta come riduttiva, o edulcorante il radicalismo cristiano. Essa non vuole essere minimalista ma, semplicemente, essenziale; non vuole addolcire il radicalismo cristiano, ma porre 1'attenzione all'umano come radice della fede. Abbiamo bisogno di recuperare 1'unita tra umano e spirituale, tra conoscenza di se e conoscenza di Dio. Se la fede ci porta a cercare di vivere la nostra umanità in Cristo davanti a Dio, allora dobbiamo aprirci all'umano che è in noi e negli altri e di cui siamo tutti ospiti: custodendolo, anch'esso ci custodirà.